Mia madre e mio
padre avevano la passione della pesca subacquea. Quando erano giovani e prima
che io nascessi (bei tempi), lui andava sul fondo del mare e le prendeva le
stelle marine e i frutti di mare, che abbondavano, e si potevano mangiare anche
crudi e appena pescati. Un regista di B-movies in vacanza là vicino li vide
dalla sua B-barca e rientrato negli States girò un film intitolato “Laguna
blu”.
Da piccolo, per
me, il mare era un trauma domenicale. L’unico giorno in cui si potesse dormire
tranquilli, perché non c’era la pena della scuola, ecco arrivare d’estate la
pena del mare. Mi svegliavano alle otto. Prima ancora dei cartoni animati. E
mentre papà mi trascinava in giro per casa, m’incollavo alle porte. Lo stesso
che nei giorni di settimana. Poi si saliva in auto — una R4 grigio oliva,
sempre rovente (ma come si faceva a vivere, una volta, senza aria
condizionata?) e si andava al mare. Pensavo fosse una cosa infernale. Anni dopo
ho visto il lungo serpentone che parte da via Cristoforo Colombo e finisce a
casa mia al mare, le domeniche di luglio, e ho deciso che quelle domeniche
siciliane erano una pacchia al confronto di quei 30 chilometri d’impiegati
della spiaggia.
Noi non andavamo
sulla sabbia, eravamo patiti degli scogli. Ovviamente non è che arrivavi lì
sullo scoglio. Andavamo in un luogo misterioso e sconosciuto che si chiamava “L’Asparano”.
E siccome dovevamo starcene tranquilli, c’era bisogno di scendere una parete
rocciosa che a me terrorizzava. Ma il posto, a dirla tutta, era bellissimo. C’era
anche un grosso arco roccioso che poi andò distrutto con il terremoto del 1990.
Anche la natura perde le sue opere d’arte.
Papà e mamma si
mettevano la muta e partivano, come il Nautilus, andando «a largo».
Io sguazzavo
nelle pozzanghere, raccoglievo conchiglie e scheletri di ricci (sembrano delle
piccole cupole di cattedrali) e forse mi raccontavo delle storie. Intorno non
si vedeva anima viva. Solo il mare. Gli scogli. Il cielo. E il pallone rosso in
mezzo all’acqua, dov’erano mamma e papà. Sembrava un film post-apocalittico di
Marco Ferreri.
Poi i miei
tornavano. Papà aveva preso uno o due polpi, che fatti ad insalata erano
buonissimi. E con mamma aveva riempito la rete blu con una ventina di ricci.
Una cosa onesta: il nostro fabbisogno di famiglia media. Non come i catanesi
che venivano con le bombole e se ne andavano con duecentomila ricci, espoliando
in un paio di domeniche l’intero fondale e lasciando una tonnellata di
spazzatura. Ma perché i catanesi non razziavano i fondali loro, invece di
venire da noi a romperci le balle quelle due domeniche? La risposta era che da
noi venivano la terza e la quarta domenica, perché le prime due, in effetti, le
avevano impiegate per depredare il loro litorale.
E poi facevano
quella cosa orribile: pulivano i ricci lasciandone i resti sugli scogli, a
seccare, che se uno ci metteva per sbaglio il piede era fottuto. Ovviamente mi
capitò, e l’incubo di mia madre che mi leva le spine con l’olio e l’ago ancora
mi perseguita ex-aequo con l’ottantamilionesima volta che in sogno ridò l’esame
di maturità.
Mamma e papà, al
contrario, si mettevano sullo scoglio, tagliavano i ricci con le forbici,
mettevano le uova arancioni in un barattolo e gettavano i ricci svuotati in
acqua. La marea li avrebbe distrutti in poche ore.
Un pezzo di pane
fresco, con due file di uova di riccio appena pescato, mangiato lì, è uno dei
ricordi più belli che ho. Bello per l’inconsapevolezza della vita violata con
cui accoglievo quell’ostia fine degna del dio Nettuno.
Adesso che sono
vegetariano, perché rispetto la vita in ogni sua forma e depreco per principio
il cibarmi del risultato di un delitto, non vivo più questo senso di comunione
«alimentare» con il mondo ma vivo tutt’altre comunioni.
Spesso mi trovo
a parlare con persone che non comprendono il mio punto di vista,
fondamentalmente perché non capiscono che una simile scelta non è una decisione
mentale, ma il frutto di un’evoluzione al livello della coscienza. Non è che
noi non mangiamo i bambini stonati, tristi o scassapalle perché è un peccato o
perché lo dice il prete. Ma perché sarebbe una pratica immonda, turpe e
mostruosa. E quando al livello della coscienza ci si accorge che un bambino, un
agnellino e un pesce rosso sono la stessa cosa, tre creature che vivono,
soffrono e amano, il campo delle scelte si restringe drammaticamente.
Non entro
neanche nel merito delle perplessità che riguardano il gusto, e che muovono ancora
gran parte delle critiche nelle quali m’imbatto. Perché se il gusto è un
parametro da collocare più in alto della vita, allora l’uomo meriterebbe di
estinguersi.
Fu del resto un
romanzo a scatenare in me la breccia della consapevolezza. S’intitolava “La
donna da mangiare”, di Margaret Atwood. E mentre prendevo appunti per il mio
esame di letteratura anglo-canadese, aprivo per la prima volta gli occhi su quello
che avevo nel piatto. Percepivo con sempre maggiore forza tutta la violenza che
era contenuta in certi cibi. Che si sono eliminati quasi da soli dalla mia
vita.
Rispetto il
cacciatore. Che testimonia una sua pur crudele e cinica consapevolezza. Va nel
bosco, si spara il suo coniglio, lo vede esanime, lo spella, lo cucina e se lo
mangia. Non è meglio, né peggio della signora (se poi in pelliccia meglio
ancora) che va al supermercato e prende tre petti di pollo, li porta a casa, li
cucina, e il figlio crede che i polli hanno tre zampe (e in questa illusione,
la sua vita ha così pochi e mediocri orizzonti, che sarà condannato a una vita
di file in macchina, la domenica mattina, per andare al mare con due milioni di
romani).
Per quel che
riguarda me, l’aspetto del gusto, del “privarsi” dei sapori succulenti e tutto
il resto si sono dissolti nella scoperta che, eliminando dieci alimenti, ne ho
scoperti cento.
E che
difficilmente un altro essere, dotato anche di consapevolezza maggiore alla
mia, riuscirà a convincermi che mangiare un cadavere è una cosa buona o neutra
e che esiste qualcosa che merita più rispetto della vita. Qualunque sia la
forma in cui essa si esprime.
28.04.13
Copyright Gabriele Policardo
Io, mamma e papà nel mare di Sicilia (1982)
Ti ringrazio per aver allietato i miei occhi con le tue parole.
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