lunedì 29 aprile 2013

4. È dura essere vegetariani quando si è cresciuti con i ricci sullo scoglio nel mar di Sicilia



Mia madre e mio padre avevano la passione della pesca subacquea. Quando erano giovani e prima che io nascessi (bei tempi), lui andava sul fondo del mare e le prendeva le stelle marine e i frutti di mare, che abbondavano, e si potevano mangiare anche crudi e appena pescati. Un regista di B-movies in vacanza là vicino li vide dalla sua B-barca e rientrato negli States girò un film intitolato “Laguna blu”.
Da piccolo, per me, il mare era un trauma domenicale. L’unico giorno in cui si potesse dormire tranquilli, perché non c’era la pena della scuola, ecco arrivare d’estate la pena del mare. Mi svegliavano alle otto. Prima ancora dei cartoni animati. E mentre papà mi trascinava in giro per casa, m’incollavo alle porte. Lo stesso che nei giorni di settimana. Poi si saliva in auto — una R4 grigio oliva, sempre rovente (ma come si faceva a vivere, una volta, senza aria condizionata?) e si andava al mare. Pensavo fosse una cosa infernale. Anni dopo ho visto il lungo serpentone che parte da via Cristoforo Colombo e finisce a casa mia al mare, le domeniche di luglio, e ho deciso che quelle domeniche siciliane erano una pacchia al confronto di quei 30 chilometri d’impiegati della spiaggia.
Noi non andavamo sulla sabbia, eravamo patiti degli scogli. Ovviamente non è che arrivavi lì sullo scoglio. Andavamo in un luogo misterioso e sconosciuto che si chiamava “L’Asparano”. E siccome dovevamo starcene tranquilli, c’era bisogno di scendere una parete rocciosa che a me terrorizzava. Ma il posto, a dirla tutta, era bellissimo. C’era anche un grosso arco roccioso che poi andò distrutto con il terremoto del 1990. Anche la natura perde le sue opere d’arte.
Papà e mamma si mettevano la muta e partivano, come il Nautilus, andando «a largo».
Io sguazzavo nelle pozzanghere, raccoglievo conchiglie e scheletri di ricci (sembrano delle piccole cupole di cattedrali) e forse mi raccontavo delle storie. Intorno non si vedeva anima viva. Solo il mare. Gli scogli. Il cielo. E il pallone rosso in mezzo all’acqua, dov’erano mamma e papà. Sembrava un film post-apocalittico di Marco Ferreri.
Poi i miei tornavano. Papà aveva preso uno o due polpi, che fatti ad insalata erano buonissimi. E con mamma aveva riempito la rete blu con una ventina di ricci. Una cosa onesta: il nostro fabbisogno di famiglia media. Non come i catanesi che venivano con le bombole e se ne andavano con duecentomila ricci, espoliando in un paio di domeniche l’intero fondale e lasciando una tonnellata di spazzatura. Ma perché i catanesi non razziavano i fondali loro, invece di venire da noi a romperci le balle quelle due domeniche? La risposta era che da noi venivano la terza e la quarta domenica, perché le prime due, in effetti, le avevano impiegate per depredare il loro litorale.
E poi facevano quella cosa orribile: pulivano i ricci lasciandone i resti sugli scogli, a seccare, che se uno ci metteva per sbaglio il piede era fottuto. Ovviamente mi capitò, e l’incubo di mia madre che mi leva le spine con l’olio e l’ago ancora mi perseguita ex-aequo con l’ottantamilionesima volta che in sogno ridò l’esame di maturità.
Mamma e papà, al contrario, si mettevano sullo scoglio, tagliavano i ricci con le forbici, mettevano le uova arancioni in un barattolo e gettavano i ricci svuotati in acqua. La marea li avrebbe distrutti in poche ore.
Un pezzo di pane fresco, con due file di uova di riccio appena pescato, mangiato lì, è uno dei ricordi più belli che ho. Bello per l’inconsapevolezza della vita violata con cui accoglievo quell’ostia fine degna del dio Nettuno.
Adesso che sono vegetariano, perché rispetto la vita in ogni sua forma e depreco per principio il cibarmi del risultato di un delitto, non vivo più questo senso di comunione «alimentare» con il mondo ma vivo tutt’altre comunioni.
Spesso mi trovo a parlare con persone che non comprendono il mio punto di vista, fondamentalmente perché non capiscono che una simile scelta non è una decisione mentale, ma il frutto di un’evoluzione al livello della coscienza. Non è che noi non mangiamo i bambini stonati, tristi o scassapalle perché è un peccato o perché lo dice il prete. Ma perché sarebbe una pratica immonda, turpe e mostruosa. E quando al livello della coscienza ci si accorge che un bambino, un agnellino e un pesce rosso sono la stessa cosa, tre creature che vivono, soffrono e amano, il campo delle scelte si restringe drammaticamente.
Non entro neanche nel merito delle perplessità che riguardano il gusto, e che muovono ancora gran parte delle critiche nelle quali m’imbatto. Perché se il gusto è un parametro da collocare più in alto della vita, allora l’uomo meriterebbe di estinguersi.
Fu del resto un romanzo a scatenare in me la breccia della consapevolezza. S’intitolava “La donna da mangiare”, di Margaret Atwood. E mentre prendevo appunti per il mio esame di letteratura anglo-canadese, aprivo per la prima volta gli occhi su quello che avevo nel piatto. Percepivo con sempre maggiore forza tutta la violenza che era contenuta in certi cibi. Che si sono eliminati quasi da soli dalla mia vita.
Rispetto il cacciatore. Che testimonia una sua pur crudele e cinica consapevolezza. Va nel bosco, si spara il suo coniglio, lo vede esanime, lo spella, lo cucina e se lo mangia. Non è meglio, né peggio della signora (se poi in pelliccia meglio ancora) che va al supermercato e prende tre petti di pollo, li porta a casa, li cucina, e il figlio crede che i polli hanno tre zampe (e in questa illusione, la sua vita ha così pochi e mediocri orizzonti, che sarà condannato a una vita di file in macchina, la domenica mattina, per andare al mare con due milioni di romani).
Per quel che riguarda me, l’aspetto del gusto, del “privarsi” dei sapori succulenti e tutto il resto si sono dissolti nella scoperta che, eliminando dieci alimenti, ne ho scoperti cento.
E che difficilmente un altro essere, dotato anche di consapevolezza maggiore alla mia, riuscirà a convincermi che mangiare un cadavere è una cosa buona o neutra e che esiste qualcosa che merita più rispetto della vita. Qualunque sia la forma in cui essa si esprime.


28.04.13 Copyright Gabriele Policardo



 Io, mamma e papà nel mare di Sicilia (1982)

sabato 27 aprile 2013

3. Karate kid («Rafforza instancabilmente lo spirito»)



«Un maestro!». Mi serviva un maestro.
Mio padre mi aveva iscritto a Karate. Il maestro era un suo amico, che somigliava incredibilmente a Chuck Norris. Il sogno di ogni ragazzino. Non fosse che gli altri allievi erano dei piccoli insoddisfatti e violenti, affetti da complessi terribili e quasi del tutto analfabeti. Aumentarono enormemente il mio senso di diversità e di alienazione. E portare alla coscienza un simile disagio, a quel tempo, mi pareva significasse deludere mio padre. Perché da piccoli ci si fanno tanti scrupoli, e si dimentica che i buoni genitori hanno sempre e solo a cuore il meglio per i propri figli. Ma non v’illudete se pensate che abbia preso la calata da Libro Cuore: tornerò a parlare di bombe molto presto.
Una volta, mentre eravamo tranquilli a chiacchierare con gli altri allievi, uno di loro, più grande di me, d’improvviso mi diede un pugno nello stomaco. Mi tolse il respiro, ci misi un bel po’ a riprendermi. Lo dissi a mio padre e lui, quando lo incontrò, lo ammonì che in breve tempo sarei cresciuto e gliel’avrei fatta pagare. Mio cugino Antonio commentò che già a 10 anni ero più alto di lui. Sparì dalla circolazione.
Eppure alcuni principi di quell’arte marziale — che ricordo ancora oggi sia in giapponese che in italiano — mi aprirono delle finestre. “Rafforza instancabilmente lo spirito” diceva una delle regole del Dojo Kun. Era il primo contatto con la filosofia, e che filosofia. Quella orientale più pura e alta. Che solo anni dopo si sarebbe trovata, nello scaffale della memoria, a fianco dei postulati della Ragion Pratica di Kant («Tratta l’umanità in te e negli altri sempre come fine, mai come mezzo»).
Il punto era: perché bisogna avere un maestro per il karate, uno per il pianoforte e si pensa di poter scalare da soli la montagna dell’illuminazione? La più difficile delle mete, la realizzazione del Sé, è per molti una faccenda da autodidatti. Come se un amante della musica pensasse, da solo, d’imparare in qualche giorno di studio al piano la Toccata e fuga in Re minore di Bach. Che peraltro è un brano da organo (ma chi è superbo non fa caso a simili dettagli).
Sapevo, per esperienza, che croce fosse la parte meno divertente dello studio del pianoforte. Sì, suonare Chopin o Liszt era bellissimo, ma che noia infinita il solfeggio, la ripetitività delle note, per non parlare del setticlavio, la torre di Babele della musica. E poi le scale, e il ripetere all’infinito le stesse sequenze di note cambiando “l’accento”. Nella testa entrava a forza una lingua sconclusionata: faladomì, misolsirefà, faddossolrellammissì, simmillarresoldoffà. Si sol, fa sol fa mi.
«Che vuoi per cena?»
«Dommissol!».
«A che ora usciamo?»
 «Fammì re do re do»
E la più ovvia di tutte: «Sei libera stasera?»
«Sì La Do»
Agli amanti del gossip rivelo che le prime nove note citate qui su sono tratte dal quarto movimento della Quinta Sinfonia di Beethoven.
Ma dove trovare un maestro di discipline spirituali? Quello che ci si avvicinava di più era Cannarella. L’insegnante di educazione fisica. Che capì subito di non poter mai trasformare me, un artista, in un atleta. Allora, mentre gli altri sfaticavano tra corse e inutili giochi di palla (dal misterioso fascino di massa), lui si sedeva sulla panchina accanto a me e, fumando il sigaro mentre scrutava l’orizzonte, iniziava il nostro simposio: «Policaddo, parliamo del dadaismo». Poi mi riaccompagnava a casa in motorino.
Ma a parte lui, nessun altro mistico o saggio a portata di mano.  Alla fine, mi sedetti e pensai, nel fondo del mio cuore, «io sono qui, quando sarò pronto a incontrarlo, il mio Maestro arriverà». A oggi, credo che questo mio senso di accettazione provato allora mi abbia risparmiato dalle grinfie di falsi maestri, adescatori e baracconi. Che pur nel tempo mi è capitato d’incrociare, tenendomene ben alla larga.
Nel frattempo, la solitudine che avevo scelto per perseguire la mia ricerca si faceva di tanto in tanto dolorosa. Per la delusione di un’amicizia iniziai a scrivere. E fu un bene. Magari oggi mi troverei su qualche spiaggia a cazzeggiare (e oggi piove, quindi un cazzeggio tristissimo) invece di stare qui a condividere le cose più importanti della mia vita con un’elite di anime belle.
Poi arrivarono gli tsunami sentimentali e il primo momento di confronto con il grande tema cruciale di tutte le storie d’amore: stabilire, difendere e onorare il proprio valore. Riconoscerlo nell’altro. Costruire qualcosa assieme. E in questa notte romantica, fatta di albe bellissime e di sprofondi oceanici, trovare riparo dalle bombe dell’anima.




 





27.04.13 Copyright Gabriele Policardo

giovedì 25 aprile 2013

2. La sottile nuvola rossa



Io e mio cugino Antonio cercavamo di fare un esperimento di telecinesi. Eravamo seduti a terra. E tentavamo di far cadere da sopra un armadio un pallone di gomma che rappresentava il mondo. Lo stesso esercizio che a 5 anni faceva il piccolo Hitler. Il pallone non si muoveva di un millimetro, e noi fummo frustrati.
Il desiderio di andare oltre la materia e i suoi limiti non si esaurì però in quell’esperimento. È l’ossessione della mia vita.
In quel periodo avevo visto uno sketch di Stanlio e Ollio che si ubriacavano con il gas anestetico del dentista e ne combinavano di tutti i colori; il gas, in forti dosi, diventa esilarante. Mi sono detto “pensa a portare in classe una bombola di gas esilarante, finalmente la rivoluzione!”.
Andai nell’enciclopedia di nonna a cercare la composizione. Lessi “N2O”. Elementare, mi dissi. Ossido di diazoto. Facile come levarsi un dente.
Alla domenica, invece della consueta esplosione, organizzai una distillazione di gas esilarante. Misi a bagno un metallo nell’acido nitrico. E si sprigionò un gas. Però non faceva ridere. Era una nebbia rossa ruggine, mostruosa. Chiusi l’acido in un barattolo, lo misi dentro casa e me ne andai tra gli alberi a meditare su dove avessi sbagliato.
Mentre capivo di aver prodotto l’NO2 e non l’N2O, vidi mio padre tutto agitato. Non capiva perché dalle finestre e dalle porte di casa uscisse un fumo rosso sangue, denso e pesante. Era successo che il tappo del barattolo — di metallo — si era squagliato, ribollendo nell’acido. Papà dovette spingerlo fuori con un rastrello, per poco non ci rimase secco.
Il mio percorso di alchimista andava a gonfie vele. Avevo trasformato uno sketch visto in tv in un quasi disastro colposo. Tutto per colpa di un “2” prima o dopo l’ossigeno. Vabbé.
Il piano del gas esilarante saltò. Ma tempo dopo portai in classe l’acido solfidrico. Un gas incolore che puzza di uova marce. Lo chiusi in una bottiglietta di plastica. E feci evacuare la scuola. Ero un piccolo Gandhi. Ottenni il più alto risultato senza alcuna violenza.
Intanto le domande innescate dalla Chiamata Ontologica alla Coscienza si facevano ogni giorno più urgenti. Non avevo strumenti. Se non la vita materiale, la scuola, il mio tempo con me stesso. Chiedere ai miei simili, peggio che andar di notte. La parte difficile non era solo capirmi con gli altri. Parlare la stessa lingua. Non era neppure trovare le risposte giuste. Era: capire cosa domandarsi. Come affrontare il problema e capire quale fosse il problema. Quello che oggi definisco con nonchalance “il sentimento medio della vita che hanno gli uomini”, una definizione perfetta di Pasolini, era ciò che allora non sapevo dire a parole. La necessità di andare oltre. Di trovare continuamente un confine e superarlo. L’avidità d’imparare solo cose fondamentali, che danno la felicità. Che rendono completi. Che trasformano il tempo in oro. Ma da dove incominciare?
Il fumo rosso si era dissolto e il sogno era finito. Papà si era rassegnato molto tempo prima. Prima che gli chiedessi di costruirmi una ghigliottina per giocare. Prima che facessi esplodere il forno di casa per essiccare la polvere da sparo. Prima che il geometra, andandosene da casa nostra, dicesse la famosa frase “ma chi siete, la famiglia Addams?”.
A chi potevo chiedere? Ai preti, no. Quelli volevano sapere solo se ti toccavi.
Agli adulti, peggio che andar di notte.
Agl’insegnanti di scuola. Se andava bene, ti guardavano come fossi deficiente e aizzavano il resto della classe contro di te. Il senso era “fa domande dalle risposte sconosciute. Ammazzatelo di risate e umiliatelo. Non ne farà più”.
Un giorno si parlava di maternità, di nascita ecc. Io dissi che per me era un miracolo che da due esseri umani se ne crei un altro. E la penso ancora così. Tutti risero. Un ragazzino disse “Policardo per te è un miracolo fare un figlio”. E anche l’insegnante rise. Il loro scopo era umiliarmi, e ci riuscirono. Perché punirono in me la ricerca del mistico e della bellezza. Il livello del “miracoloso” che leggo dietro ogni evento. Quella filigrana divina che i miei occhi vedono sovrimpressa alla realtà.
La scuola, del resto, serve a comprimere, non ad espandere. A disimparare, deformare e avvelenare piuttosto che insegnare, formare e nutrire.
Mentre il mondo delle persone “normali” iniziava a perdere per me interesse, il lato sempre più misterioso e nascosto delle cose sussurrava alle mie orecchie come le sirene a Ulisse. Le bombe e le formule non bastavano più. Dovevo capire che ci facevo io qui dentro. In questa materia chiamata corpo. In questo tempo. Con tutte queste persone intorno. Dovevo capire fino a che punto aveva senso capire. E dove iniziava e dove finiva l’Essere.

25.04.13 Copyright Gabriele Policardo