mercoledì 29 maggio 2013

9. «Ragione e sentimento». Ovvero «L’acido ascorbico che passione!»



Conosco bene la storia di una donna che desidera con tutto il cuore qualcosa, si scontra con i genitori e finisce che fa la ragioniera. È la storia di mia madre. Tutta la mia fanciullezza è trascorsa con l’immagine di mia madre, un genio di madre, perennemente alla scrivania, giorno e notte (aveva lo studio dentro casa, non ha smesso di lavorare per 30 anni). Non so come abbia fatto ad essere così brava: forse erano due e si davano il cambio in bagno, come Superman e Clark Kent. Dicevo, quando mia madre osò dichiarare che avrebbe desiderato iscriversi all’istituto d’arte, mia nonna, Ornella von Kappler, disse «no, tu devi fare lo scientifico». Mia madre, che è mancina, concluse «piuttosto che dartela vinta m’iscrivo a ragioneria». E così fece. Ora, chi ama i numeri e la psicologia, non avrà difficoltà a trovare fascino nel mestiere di commercialista, in un paese devastato dai ladri, amministrato da schizofrenici e soffocato da leggi che correggono, integrano, cancellano, ripristinano, riannnullano altre leggi. Ma a una persona amante dell’arte, della bellezza, della creazione, del senso estetico, è meglio spezzare le ali. E così mi disse, infatti. Quando le chiedevo da piccolo se avrei dovuto fare il commercialista come lei, mi guardava come la bambina dell’esorcista e rispondeva «piuttosto ti spezzo le gambe». Ogni tanto tirava fuori una pistola grigia e si sparava una dose di un farmaco contro il mal di testa che costava 100 mila lire. Questa era mia madre. Un capolavoro vivente con una pistola di plastica in mano contro il proprio corpo che si opponeva alla mortificazione della sua grande anima. Ma un giorno ha capito e ha mollato tutto, dandosi al giardinaggio, ai gatti e ai bavaglini. A proposito, se vi servono bavaglini da regalare ai vostri bambini o ad amici che hanno appena avuto dei figli, ditelo a me: la farete felice se le comprate un bavaglino ricamato a mano personalizzato.
Oggi ho avuto una incontro con una persona che mi ha ricordato tanto mamma. Perché anche lei ha scelto il mestiere di ragioniera per obbligo dei propri genitori. Per inciso: imporre una scuola che si detesta non è un atto di disamore o di sadismo dei genitori, è un modo un po’ deviato e grossolano di manifestare il proprio amore nella forma di una spasmodica ansia, di una preoccupazione preventiva che tra vent’anni non trovi lavoro. Hanno sbagliato tutti, perché alla fine oggi nessuno lavora più. Tanto valeva fare l’istituto d’arte o il classico.
Questa persona, per anagrafe portatrice di bellezza, si è alzata stamattina e si è accorta che non ne può più del lavoro che ha scelto di scegliere, del suo capo, del suo collega che la maltratta, e che la seduce assai di più la strana alchimia magnetica per cui tutti quelli che hanno un problema glielo vanno a dire. E lei trova per loro delle soluzioni.
Salta fuori subito che da sempre si è occupata di studi e ricerche terapeutiche, e ama molto lo studio delle piante e le proprietà delle erbe. Non ha però considerato di fare di questa sua passione, che è la propria missione, il lavoro della sua vita. Ha scelto la via assai più ripida e dispendiosa di fare un lavoro di facciata ed esprimere il proprio talento privatamente, come dovesse vergognarsene, e nel tempo libero.
«Scusa, che cosa hai studiato stanotte?» le ho chiesto. «L’acido ascorbico». Ribatto: «e ti pare normale che una ragioniera si emozioni con l’acido ascorbico?».
La vita apre delle finestre. Una evidentemente si è aperta oggi nella vita di questa grande donna. Se lei si affaccia e vede passare, per la strada soleggiata e d’oro, la ragazza di 23 anni che era quando chiuse tutti questi tesori in un buio forziere, scoprirà l’isola del tesoro. E anche il mondo ne sarà arricchito. Perché un’erborista terapista serve francamente più di un ragioniere in un’epoca di trasformazione, evoluzione e fallimenti dei grandi casermoni del consumismo.
Ma deve comunque essere grata ai suoi. Se in fondo l’avessero incoraggiata a fare la farmacista, oggi quasi certamente si mangerebbe le mani, perché costretta a dare a ogni persona un farmaco con la certezza perenne che sia inutile, superfluo o addirittura controproducente. E non c’è dannazione peggiore che essere costretti a esercitare la propria passione con l’obbligo di tradirla ogni giorno.

21.05.13 Copyright Gabriele Policardo

martedì 21 maggio 2013

8. Amici nel tempo



Nell’autunno 2009 mi trovavo tra le montagne a nord di New York, le Catskills, a fare il giardiniere con la mia ragazza nell’ashram del nostro Maestro. Era un vero paradiso, nonostante la pesantezza del lavoro che offrivamo come dono alla comunità (e a noi stessi). Raccogliere tonnellate di foglie, spalare camion e camion di terra, piantare bulbi, spazzare, rastrellare, plastificare le finestre, cingere alberi e cespugli, onorare Dio in noi e negli altri.
Dormivamo in stanzoni con sei letti, ma essendo l’ashram aperto solo ai sevaiti — cioè coloro che offrono il proprio servizio — raramente vi erano più di due persone per stanza. A me andò di lusso. Avevo la stanza tutta per me e non dovevo rendere conto a nessuno. Scrivevo il mio diario nell’anticamera fino a tardi e mi alzavo tutte le mattine alle 4.30 — l’ora in cui a casa mia di solito vado a dormire. Verso le 21.00 crollavo, come Dante alla fine di ogni cantica.
Ma quando vidi alla reception che alla mia stanza era stato assegnato un nome, Philip Chaffee, dentro di me iniziai a borbottare. Forse era finita la pacchia. Quel giorno era un sabato, e con la mia ragazza andammo fuori dall’ashram; a pochi passi c’era l’Arati Store, il negozio in cui si poteva trovare di tutto — cibi, creme, statue, incensi, riviste, libri, ecc. — e mi beai di tanta abbondanza. E comprai una trentina di libri. Al punto che al check in del volo di ritorno ho dovuto pagare 50 $ extra per il peso della valigia (l’impiegata italoamericana mi disse nella sua lingua meravigliosa «ohe, guaglio’, qui superi il peso di venti kilograms, devi pagare 50 $ extra» e io «posso pagare con la carta?» e lei «co’ la card, in cuntant, comu ti pare»).
Mentre il cassiere dell’Arati Store batteva i trenta libri, improvvisamente mi accorsi che dietro di me c’era un uomo sulla cinquantina che attendeva. Aveva gli occhiali scuri, era alto e robusto, i capelli corti, ricci e grigi, un’aria seria ma allo stesso tempo gioviale. Insomma, sembrava il classico killer dei film americani. Mi scusai con lui per farlo aspettare tanto. E in un americano da western mi rispose “È ok, è una così bella giornata”.
Prendemmo le nostre buste e ce ne tornammo all’ashram.
Mentre camminavo verso gli appartamenti, lungo i corridoi tra gli alberi, continuai a percepire la presenza di quell’uomo alle mie spalle. Proprio come nei film, ripeto. Poi giunsi alla mia stanza, e, voltandomi, eccolo dietro di me, sempre con gli occhiali, sempre in silenzio. «Ah…» dissi, a dir poco sorpreso. Era lui Philip Chaffee.
Nell’ultima mia settimana all’ashram — e già nello scrivere questa frase, non so perché, mi vengono le lacrime agli occhi — Philip avrebbe condiviso la mia stanza e anche il lavoro ai giardini. Iniziammo a chiacchierare. Lui era un “attorney”, cioè un avvocato. Ed era, come molti americani, un patito dello yoga, in tutte le sue forme. Uno che, diversamente dagli europei, prende queste cose con molta serietà, pur con tutte le contraddizioni che vi possono essere nel fare un certo tipo di vita, o nell’averla fatta, e nello scegliere di punto in bianco la strada della perfezione, e perseguirla con ostinato entusiasmo. Gli chiesi da dove venisse. Grand Rapids, Michigan. Io capii “Grand Rabbits” e gli chiesi «dove sono questi conigli giganti?». Inoltre gli chiesi se, essendo del Michigan, potevo chiamarlo «Mitch». Lui rispose, sorridendo, «I don’t care!». Diventammo amici per la pelle.
Diversamente da noi, che ci spaccavamo la schiena come soldati per compiere fino in fondo l’immensa quantità di lavoro che il nostro coordinatore ci ammollava ogni giorno, Philip la prendeva con filosofia. A volte spariva per mezz’ora, ed era andato a prendere un rastrello. Intanto s’era fatto una passeggiata tra gli alberi rossi che cingevano il lago, contemplandone la bellezza. Un giorno un trasportatore, facendo retromarcia con il camion, spezzò un ramo di un grande albero, proprio vicino all’appartamento del Guru. La nostra coordinatrice, mentre ciò avveniva, gli gridò: «What are you doing? Shit!». Ci guardammo tutti negli occhi. Aveva proprio detto «Merda!». Sui terreni dell’ashram. Da quel momento, sdoganammo anche le parolacce. E Philip, rispetto agli altri nostri “colleghi” — un ragazzetto brasiliano, una signora argentina che non capiva una parola e un compassato signore inglese — era proprio il compagno ideale.
Passavamo ogni notte, al buio, a raccontarci le nostre vite, cosa desideravamo, cosa pensavamo di mille argomenti, quali erano i nostri progetti e desideri, e come la spiritualità ci aveva reso persone migliori. Usò una parola riguardo i nostri dialoghi, quando mi scrisse il suo pensiero sul mio diario. Disse che ero «challenging», cioè pungente, impegnativo, che con il mio punto di vista e il mio mondo lo sfidavo continuamente. Lui fu molto amabile quando venne con noi, all’Arati Store, a comprare — con i soldi vinti da mia madre al lotto — una statua di bronzo dello Shiva danzante, che avevo tanto desiderato e che poi mi fu spedita dall’India.
Philip era sempre disponibile, sempre allegro, sempre gioviale, sempre lì a darti una mano, a chiederti come stavi, a prendersi il suo tempo e il tuo tempo, perché parlare era un arricchirsi continuo e confrontarsi un viaggio della conoscenza.
Ricordo la sua faccia rossa, quando d’improvviso gli passò davanti il nostro Guru, uscendo dal caffè dell’ashram (il nostro Guru si fa vedere molto di rado). E ricordo com’era emozionato, come un bambino, quella notte del 31 ottobre, Halloween, quando fummo chiamati nel palazzo principale dell’ashram e il Guru arrivò a farci una sorpresa, trascorrendo con noi quella serata. Di notte, raccontandoci l’immensa emozione che avevamo appena vissuto, e ancora increduli, ci accorgemmo che chiudendo gli occhi non vedevamo il solito nero. Ma un blu brillante, luminoso e fantastico, il blu della Coscienza. Vivemmo quel momento fondamentale della nostra vita. Io e lui.
Quando fu il momento di andarcene, Philip era tristissimo. Camminava a testa bassa, e rimase con noi fino all’ultimo. Mi chiamava «fratello» e volle portare tutte le mie valigie, fino alla macchina. Quando, piangendo come vitelli, io e la mia ragazza vedemmo allontanarsi dal finestrino il più bel momento della nostra vita, c’era anche lui a salutarci.
Continuammo a scriverci. Tramite Facebook, era come fossimo costantemente collegati. Perché non mi era mai capitato di trovarmi così bene con una persona, come se la conoscessi da secoli. E di parlare a un livello così sottile, profondo, necessario.
Nel 2011 andammo in vacanza a Chicago. E per una serie di strane coincidenze, Philip non poté assentarsi dal lavoro — aveva delle udienze — e venirci a trovare. Nella sua delusione per non esserci riuscito, risuonava una strana, eccessiva tristezza. Gli dissi che avremmo avuto molti anni per incontrarci. Sarebbe venuto lui da noi a Roma, un giorno, a visitare l’Italia, e noi saremmo andati nella città dei conigli giganti.
Il 16 maggio del 2012, nel giorno in cui era nato il Maestro del nostro Maestro, un giorno sacro e benedetto, lessi su Facebook una serie di saluti e di commiati rivolti a lui. Non potei e non volli credere che fosse vero, ma era così. Una sera Philip era stato ricoverato per un’embolia polmonare e poco dopo se n’era andato. Cancellando quel futuro che avevamo immaginato e che forse lui sapeva di non poter garantire. Philip era una delle poche cose certe del mio futuro. Era quel pensiero dolce e luminoso cui correvo nei momenti di disagio, quando vedevo intorno a me un mondo inconsapevole, sciocco e violento. «Era l’uomo più morbido che avessi mai abbracciato» disse la mia ragazza, in lacrime. Philip era tante cose. E niente e nessuno colmerà il vuoto che ha lasciato nella mia vita. Ma io so, nel profondo del cuore, che dove è lui ora sta sentendo queste mie parole e rivivendo tutto questo con me. Perché come ci siamo incontrati, dopo secoli, prima o poi ci rincontreremo. Nel grande gioco della Coscienza. Io e Philip, come fratelli. Compagni di tante avventure. Amici nel tempo.


21.05.13 Copyright Gabriele Policardo



lunedì 13 maggio 2013

7. La psicoterapia dei Tarocchi



Quando avevo 9 anni, mi accorsi che in un mobile del salotto mia madre teneva una raccolta di volumi intitolati “Professione Donna” e numerati dall’1 al 21. Guarda caso come le lettere dell’alfabeto. Ciascuno riguardava un settore della “professione” di moglie perfetta: cucina, ricamo, giardinaggio, ecc. Il ventesimo, che per titolo aveva “Tempo libero” mi attrasse subito e iniziai e leggerlo. Conteneva una serie d’informazioni ed esercizi per passatempi paranormali delle casalinghe disperate come la lettura della mano, dei fondi di caffè, dei pianeti. Un capitolo parlava dei Tarocchi. Ignorando allora lo scopo di quel volume — qualche donna, alla fine della sua formazione di casalinga, moglie e mamma avrebbe cercato di usare quelle conoscenze per far sparire il marito, o lanciare il malocchio a qualche sospetta amante — cominciai a studiare questi argomenti con un certo interesse. I primi non m’interessarono più di tanto. Ma i Tarocchi mi affascinarono da subito. Queste carte magiche, con dei disegni misteriosi, bellissimi, che solo a guardarli sembravano sussurrare cose mai sentite prima, segreti lontanissimi. E i loro nomi incredibili: il Mondo, il Bagatto, il Carro, l’Imperatore, le Stelle, la Temperanza, gli Amanti, la Torre, la Papessa…
Ognuno era un quadro. E già a quell’epoca capii che su ciascuno dei 22 arcani maggiori ci si potrebbe soffermare a riflettere o a meditare una vita intera.
A quel tempo ignoravo che i tarocchi, come alcuni giochi che fanno i bambini, fossero i “luoghi” nascosti in cui i cabalisti avevano celato i loro saperi iniziatici in vista di tempi oscuri di repressione e persecuzione della conoscenza. Avevo però capito chiaramente che sono infinite cose, fuorché un gioco di carte.
Chiesi a mia madre di comprarmene un mazzo. Scese in tabaccheria e mi regalò i tarocchi che tuttora uso per le mie consultazioni e i miei studi, sebbene con gli anni ne abbia collezionati diversi tipi.
Il mio approccio fu, come sempre nella mia vita, di tipi scientifico, sperimentale. Non sapevo nulla di Qabbālâ. Né potevo immaginare che un giorno quelle carte sarebbero diventate, nelle mie mani, un potente ed efficace strumento d’indagine psicologica. Volevo solo sperimentare e capire. Come e perché esse riuscivano a rispondere alle domande di una persona? Usai come cavie le ragazze che lavoravano in ufficio con mamma, le quali devo dire si prestarono volentieri. Una delle due, in particolare, rimase talmente colpita da ciò che attraverso le carte avevo descritto della sua vita sentimentale, che per diversi anni mi chiese di rifargliele. Fino al punto in cui aveva chiuso ogni rapporto con il suo ragazzo ed era convinta fosse finita. Le carte dissero il contrario. E in effetti, qualche anno dopo, i due si sono sposati.
Più li facevo, e più i Tarocchi diventavano precisi, affilati, ironici. Erano poeti, parlavano per metafore. Avevo smesso di chiedermi per quale legge fisica il loro magnetismo si modellava sul vissuto dei consultanti. Era troppo affascinante abbandonarmi al loro mistero, tirare a indovinare e centrare sempre la verità. Perché l’immaginazione che essi alimentavano era un atto creativo reale, un esercizio del potenziale più ampio che ha ogni essere umano, e concerne il pensiero come creazione e influenza sulla realtà. Dunque, in qualche modo, una possibile forma di potere. Questo aspetto iniziò a turbarmi.
Quando mi trasferii a Roma, continuai a studiarli e a farli. Perlopiù ai vicini di casa, agli amici e al pilota che viveva in casa con me e, tra un viaggio e l’altro, mi chiedeva consigli sul suo lavoro. Poi smisi per lungo tempo. Accadde un giorno in cui un poliziotto, per sfottermi, venne da me e disse «forza, avanti, io nelle carte non ci credo, sono tutte cazzate, ma se è vero che sei così bravo, dimmi un po’ con chi mi fa le corna mia moglie».
Oggi non gli risponderei, ma a vent’anni si è più immediati. Le carte non ebbero dubbi. «Tua moglie ti tradisce con un uomo biondo che porta una divisa». Il poliziotto divenne pallido e perse la parola. Aveva il sospetto che la moglie si divertisse con qualcuno, ma non avrebbe mai pensato a quello che le carte gli indicavano e che, in effetti, era stato bravo a fargliela di nascosto. Era tutto vero.
Non le feci più per quasi un decennio. Salvo pochissimi casi. Eppure, negli anni, molte persone mi chiedevano fin quasi alla persecuzione di rifargliele. Perché tutto si era realizzato. Ma io intanto studiavo e proseguivo il mio cammino. E la strada che avevo intrapreso si allontanava da quella del potere e della divinazione.
Un giorno mi accorsi però che quello che avevo imparato, in diversi altri rami del sapere, poteva in un certo modo confluire nei Tarocchi solo ed esclusivamente nella forma di uno strumento di psicoterapia. E dato che disperati, nevrotici e abbandonati di tutti i gradi e latitudini mi chiedevano aiuto, era l’occasione giusta per sistemare qualche situazione urgente.
Giunsi persino a mettere un manifestino nella sala d’attesa del mio veterinario — mio cliente d’eccellenza, in cambio di cure per i miei animali — ma quando lui lo lesse, mi chiamò dicendo che ciò che avevo scritto sui Tarocchi “porte simboliche” ecc. non si capiva. Risposi che era fatto apposta. Solo chi capiva il senso delle mie parole, mi avrebbe chiamato con il giusto spirito. E in effetti feci qualche memorabile lettura. Però un giorno mi chiamò una voce femminile, ferrea e severa: «Senta? È lei er cartomante?». Non ebbi il coraggio di dire «sì». Spiegai «no, non sono un cartomante, ma uso le carte per…» e le spiegai. Non fu convinta, era una di quelle che volevano sapere in che ristorante va il marito con l’amante. Mi congedò con ostile diplomazia: «ci faremo risentire».
Ultimamente ho deciso di superare le mie paure e di accettare che i Tarocchi possono aiutare le persone a capire dove si trovano nella loro vita, quali dinamiche sfuggono alla propria comprensione e quali ruoli interpretano, rispetto anche agli altri «attori» della loro esistenza. Figli che fanno da genitori ai propri genitori, mariti che fanno da figli alle ex mogli e da “mariti” alle figlie, donne che hanno tre relazioni allo stesso tempo e neppure un amore, che interpretano anche il ruolo del proprio compagno, che hanno paura di guardare avanti perché vedono troppo lontano, in un mondo di ciclopi e di miopi. Tornerò a farli perché non ci sarà di mezzo alcun potere che non sia quello che ciascuno ha di lavorare su di sé e di migliorarsi. E perché solo rivedendoci in molti specchi, avremo chiaro una volta per tutte chi siamo davvero.

13.05.13 Copyright Gabriele Policardo


giovedì 9 maggio 2013

6. Il grande Gatsbry



Ieri sera mi sono imbucato a un evento mondano. C’era tutta la Roma del cinema e io — da attento osservatore — ho immortalato con gli occhi di un documentarista di Super Quark la strana vita dei ricchi. Arrivano a gruppetti, per lo più in coppie. E pur nella sera romana, alla tenue luce dei lampioni e tra le ombre degli alberi, si scannerizzano tra di loro a chilometri come fanno i gatti quando altri gatti invadono il loro isolato. E come i gatti si annusano, si strusciano o s’ignorano. Si entrava in questo grande locale da uno spiazzo, dopo aver fatto la tessera — 7 euri. Si tagliava un muro di persone chiacchieranti del nulla e fumanti, per infilarsi in muro più denso di corpi, alla Indiana Jones, e guadagnare l’entrata del locale. Dentro si starà più comodi, pensa un artista squattrinato, un uomo del popolo, che paga la libertà della propria parola con la non-appartenenza a questo gattile. No, peggio. Una massa informe di esseri umani, che sguazzano nelle onde di una musica terribile, speronando i tavoli tutti rigorosamente vuoti ma occupati da borse e maglioni. A un altro livello, sembrava la festa di compleanno di una borsa.
Subito m’irrigidisco. La mia amica, una PR geniale che cambia a ogni passo professione, come le targhe della Aston Martin di James Bond, mi fa strada nella mischia. Si ferma il primo, un attore. “Ah, io sono nelle produzioni!” e si scambiano due parole. Altro passo. Una signora tutta imbalsamata in cerca di strategie contro le insidie dell’età. E la mia amica “ah sì, venga da noi, sono nel settore del benessere, abbiamo delle bellissime palestre!” e la signora gongola tutta, quasi a dar segni di vita. Poi trovo persino un mio amico, Phil, di professione producer, in cerca di una nuova casa. “Ottimo! Io sono nel settore immobiliare!” fa la mia amica. E il bello è che davvero fa tutte queste cose contemporaneamente. Proprio come Goldfinger. 
Intanto io li osservo, questi ricchi. Si accalcano a un bancone così preso d’assalto, che non sono riuscito a capire chi è che serviva. Se esseri umani, o il polpo gigante del locale di Roger Rabbit. Si spremono, come formiche firmate, gli uni sugli altri, uomini, donne, vecchi e bambini. Non vale la regola dell’abbandonate la nave. Prima vengono tutti.
Poi li vedi uscire da questa calca con due piattini di plastica che contengono l’ambito premio, il cibo praticamente unico che si serve in queste occasioni. Couscous e mezzi toast con pomodori sopra. Roba che farebbe svenire il mio medico ayurvedico. E un bicchiere di vino con cui giocano a fare gli egizi, camminando come equilibristi tra quelli che devono ancora magna’ (e sono agguerritissimi) e quelli che escono dalla fila con il piattello servito. Non siedono ai tavoli, perché le borse li guardano male. Allora stanno in piedi, tutti in punizione, bombardati dalla musica micidiale, a passarsi il bicchiere nella mano con cui non mangiano e poi nell’altra quando devono bere. Se gli offri di stringerti la mano sono fottuti. E ti guardano malissimo. Peggio delle borse. Nella caciara universale, strillano per dialogare eppure sono convinto che il 70% delle cose che si dicono non le capiscono. Perciò restano tutti amici.
A un certo punto, la musica finisce. Cala il panico. Il silenzio uccide otto persone. Qualcuno fa un sospiro di sollievo. Per fortuna il baccano ricomincia dopo cinque secondi e ancora più forte, con un’onda d’urto che fa saltare i punti dalla faccia della signora di prima, e qualcuno viene colpito e ferito.
Intanto penso a che vita fanno questi ricchi. Una vita scomodissima, dove si mangia poco e male, in piedi, strillando, tra persone che ti danno botte continue — non sono rari i pezzi di pomodoro che galleggiano nei bicchieri di vino. Io, con dodici euro, al Wah Pei di Campo Ascolano magno come un re, antipasto, primo, contorno, fragole con panna e gelato, caffè e pure la grappa, servito e riverito. Che bella la povertà!
«Non sono mica questi i ricchi» mi fa, appena fuori, il mio amico Phil. E io chiedo «chi sono?». «Sono attori, attrici, gente del cinema, ma non sono loro i ricchi». Nel silenzio improvviso della città che aspetta fuori dal locale i reduci della festa, mi ricordo il Grande Gatsby. Le sue feste enormi e oscene, eppure bellissime ed elegantissime in confronto a questa Sodoma e Gomorra. Tutti ballavano allegri, la musica più bella nella storia dell’umanità, mentre l’America andava a schiantarsi contro la Grande Depressione. Erano gli anni Venti, e lui era solo un uomo innamorato che voleva riconquistare il suo amore di ragazzo. «Cameriere, mi porti altro champagne» dico io, voltandomi. Ma non c’è quell’America dietro di me. Ci sono i due che all’ingresso fanno le tessere. E ti guardano con gli occhi innocenti e inconsapevoli di chi non capisce se tu sia un premio Pulitzer, un miliardario filantropo o un ex banda della Magliana. Ecco, la musica continua, gli amici non se ne vanno. Il sogno è finito. O forse, non è nemmeno mai iniziato.

09.05.13 Copyright Gabriele Policardo

Nella foto, io e Phil all'uscita dal locale.