sabato 27 aprile 2013

3. Karate kid («Rafforza instancabilmente lo spirito»)



«Un maestro!». Mi serviva un maestro.
Mio padre mi aveva iscritto a Karate. Il maestro era un suo amico, che somigliava incredibilmente a Chuck Norris. Il sogno di ogni ragazzino. Non fosse che gli altri allievi erano dei piccoli insoddisfatti e violenti, affetti da complessi terribili e quasi del tutto analfabeti. Aumentarono enormemente il mio senso di diversità e di alienazione. E portare alla coscienza un simile disagio, a quel tempo, mi pareva significasse deludere mio padre. Perché da piccoli ci si fanno tanti scrupoli, e si dimentica che i buoni genitori hanno sempre e solo a cuore il meglio per i propri figli. Ma non v’illudete se pensate che abbia preso la calata da Libro Cuore: tornerò a parlare di bombe molto presto.
Una volta, mentre eravamo tranquilli a chiacchierare con gli altri allievi, uno di loro, più grande di me, d’improvviso mi diede un pugno nello stomaco. Mi tolse il respiro, ci misi un bel po’ a riprendermi. Lo dissi a mio padre e lui, quando lo incontrò, lo ammonì che in breve tempo sarei cresciuto e gliel’avrei fatta pagare. Mio cugino Antonio commentò che già a 10 anni ero più alto di lui. Sparì dalla circolazione.
Eppure alcuni principi di quell’arte marziale — che ricordo ancora oggi sia in giapponese che in italiano — mi aprirono delle finestre. “Rafforza instancabilmente lo spirito” diceva una delle regole del Dojo Kun. Era il primo contatto con la filosofia, e che filosofia. Quella orientale più pura e alta. Che solo anni dopo si sarebbe trovata, nello scaffale della memoria, a fianco dei postulati della Ragion Pratica di Kant («Tratta l’umanità in te e negli altri sempre come fine, mai come mezzo»).
Il punto era: perché bisogna avere un maestro per il karate, uno per il pianoforte e si pensa di poter scalare da soli la montagna dell’illuminazione? La più difficile delle mete, la realizzazione del Sé, è per molti una faccenda da autodidatti. Come se un amante della musica pensasse, da solo, d’imparare in qualche giorno di studio al piano la Toccata e fuga in Re minore di Bach. Che peraltro è un brano da organo (ma chi è superbo non fa caso a simili dettagli).
Sapevo, per esperienza, che croce fosse la parte meno divertente dello studio del pianoforte. Sì, suonare Chopin o Liszt era bellissimo, ma che noia infinita il solfeggio, la ripetitività delle note, per non parlare del setticlavio, la torre di Babele della musica. E poi le scale, e il ripetere all’infinito le stesse sequenze di note cambiando “l’accento”. Nella testa entrava a forza una lingua sconclusionata: faladomì, misolsirefà, faddossolrellammissì, simmillarresoldoffà. Si sol, fa sol fa mi.
«Che vuoi per cena?»
«Dommissol!».
«A che ora usciamo?»
 «Fammì re do re do»
E la più ovvia di tutte: «Sei libera stasera?»
«Sì La Do»
Agli amanti del gossip rivelo che le prime nove note citate qui su sono tratte dal quarto movimento della Quinta Sinfonia di Beethoven.
Ma dove trovare un maestro di discipline spirituali? Quello che ci si avvicinava di più era Cannarella. L’insegnante di educazione fisica. Che capì subito di non poter mai trasformare me, un artista, in un atleta. Allora, mentre gli altri sfaticavano tra corse e inutili giochi di palla (dal misterioso fascino di massa), lui si sedeva sulla panchina accanto a me e, fumando il sigaro mentre scrutava l’orizzonte, iniziava il nostro simposio: «Policaddo, parliamo del dadaismo». Poi mi riaccompagnava a casa in motorino.
Ma a parte lui, nessun altro mistico o saggio a portata di mano.  Alla fine, mi sedetti e pensai, nel fondo del mio cuore, «io sono qui, quando sarò pronto a incontrarlo, il mio Maestro arriverà». A oggi, credo che questo mio senso di accettazione provato allora mi abbia risparmiato dalle grinfie di falsi maestri, adescatori e baracconi. Che pur nel tempo mi è capitato d’incrociare, tenendomene ben alla larga.
Nel frattempo, la solitudine che avevo scelto per perseguire la mia ricerca si faceva di tanto in tanto dolorosa. Per la delusione di un’amicizia iniziai a scrivere. E fu un bene. Magari oggi mi troverei su qualche spiaggia a cazzeggiare (e oggi piove, quindi un cazzeggio tristissimo) invece di stare qui a condividere le cose più importanti della mia vita con un’elite di anime belle.
Poi arrivarono gli tsunami sentimentali e il primo momento di confronto con il grande tema cruciale di tutte le storie d’amore: stabilire, difendere e onorare il proprio valore. Riconoscerlo nell’altro. Costruire qualcosa assieme. E in questa notte romantica, fatta di albe bellissime e di sprofondi oceanici, trovare riparo dalle bombe dell’anima.




 





27.04.13 Copyright Gabriele Policardo

3 commenti:

  1. Ti leggo caro. ti leggo e ti seguo, anche se difficilmente mi manifesto. Grazie per la tua presenza preziosa

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  2. Grazie a te. Sei il primo commento nella storia! Abbracci.

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  3. Allora ti butto il secondo! Devo ringraziare un amico in comune che mi ha permesso di arrivare fin qui e curiosare tra queste tue righe. È bello leggere qualcuno che ha il coraggio di ricercare e sperimentare su di se prima che su altri e che prova ad andare oltre al buon sperimentare altrui e ne fa buon uso. Ti ringrazio perchè stasera mi hai aiutat a sentirmi meno coglione e più deciso a continuare. Magari ci vediamo presto...intanto un caro abbraccio

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