mercoledì 4 dicembre 2013

Ciascun uomo è una descrizione del mondo.



A 25 anni venni a sapere di un osteopata kinesiologo che curava il corpo e la mente, che dava se non risposte, soluzioni, che se tu andavi da lui, tutto il mondo saltava per aria e poi iniziavi a stare meglio. Non avevo mai chiesto alcun tipo di aiuto, né credevo di averne bisogno. Eppure fui onesto con me stesso e mi confessai di stare male. Avevo patito un pesante abbandono, mi portavo dentro un misto di male di vivere, ricerca, frustrazione, inadeguatezza, rifiuto, tristezza. A volte avevo desiderato la morte. Altre mi svegliavo con un tale peso sullo sterno da non riuscire a respirare, da voler risprofondare nel sonno. Decisi che se attraverso il suo aiuto avrei potuto migliorare la qualità della mia vita, quel mettermi in gioco sarebbe stato un atto di coraggio e di rinascita, quei soldi sarebbero stati i più utili mai spesi. Andai da lui e dissi: «il mio nome è Gabriele, sto male, non mi offendo, voglio risolvere tutto e subito». Lui era un uomo impossibile da definire usando parole o aggettivi. Mi ricordava, con il suo sguardo profondo che vede dentro e oltre, gli egizi alieni del film «Stargate». Nel silenzio con cui mi ascoltava, si nascondeva il mistero di certe tradizioni sciamaniche da lui in seguito narrate e, di fatto, l’incredibile — per me — realtà che avesse molte descrizioni, molti approcci, molti diversi strumenti per comprendere le cause di un problema e risolverlo in profondità. Lui sapeva guardare una persona da alcuni metri e capire con chi aveva litigato quella mattina. Tirò fuori dalla mia pancia un dolore antico, che non si era mai staccato da quelle cellule. Mi fece fare pace con persone e situazioni dalla cui liberazione trassi un immediato beneficio. Qualche giorno dopo presi un treno. Mentre camminavo alla stazione Termini a Roma, imparai a sentire quella voce di saggezza che lui aveva introdotto nella mia mente, come una serie di comandamenti dell’amore. Mi accorsi che potevo smettere di giudicarmi, di sentirmi piccolo, limitato, in pericolo. Che il mondo poteva essere una grande avventura e un’occasione continua di scoperta e meraviglia. Che i miei dolori di stomaco erano il frutto di questo contorcimento mentale. Arrivai a Napoli, perché la sera avrei assistito alla splendida riedizione, a distanza di molti decenni, delle “Nozze di Figaro” di Mozart, una delle mie opere preferite. Per confermarmi la certezza di quanto compreso, arditamente e proditoriamente mangiai un tris di fritti bomba, sapendo che stavolta non sarei stato male. Così fu. Era iniziato il mio percorso di consapevolezza e accettazione. L’amore aveva ricominciato a scorrere nella mia vita. Il mio terapista mi vide in altre due o tre occasioni, poi mi lasciò dicendo che avevo tutti gli strumenti per farcela da solo. Oggi ritengo che ciascun uomo sia una descrizione di sé e del mondo. Che per principio, un vero scienziato non dovrebbe mai escludere niente prima di averlo sperimentato. Che un domani potrebbe arrivare un piccolo Mozart dell’anima a scoprire che i fili d’erba decotti e presi al chiaro di luna recitando il mantra “son figo son figo son figo” fanno passare più in fretta la depressione o trasformano la tristezza in entusiasmo. Non credo nelle guerre di religione, intendendo con questa parola qualunque forma sistematica di conoscenza imposta come dogma e sorretta dalla paura e dalla sospensione del senso critico. Non credo che il mio Dio sbianca più bianco del tuo, né che esistano verità assolute prescrivibili tra uomini come scatole di antifiammatori. Anche se il dio si chiama Freud, Barnard o Jung. Occorre avere una grande predisposizione all’ampiezza. Distruggere la paura e accogliere la vita nella sua vastità incontenibile. Accettare che nessuna scuola, nessun percorso, nessuna religione saranno mai il punto di arrivo di nulla. Che Hegel toppava quando disse che la sua filosofia era il compimento supremo della filosofia stessa, come se il genere umano fosse destinato a morire nella sua ricerca in lui. Che finché esisterà un uomo vivo su questo pianeta, esisterà un nuovo territorio da esplorare, una nuova descrizione per dare una forma, un significato, un senso al nulla. Il percorso che propongo io nelle mie consultazioni è una collezione di tutti i percorsi terapeutici, sapienziali, conoscitivi e delle descrizioni più efficaci che ho sperimentato su di me e sugli altri. Prima e a lungo privatamente, in segreto, poi pubblicamente, mettendomi in gioco. Propongo una strada solo se funziona in almeno il 90% delle persone. Ammettendo che esiste un 10%, e forse anche di più, di persone che affermano di voler cambiare ma in realtà amano molto restare come sono, lì dunque il rispetto e l’amore prescrivono di alzare le braccia e fare un sorriso. So che chiunque sa guidare uno sconosciuto fuori dal labirinto di cui ha scoperto la strada, che portare alla luce verità nascoste salva la vita a molti livelli. Ho imparato moltissimo da ogni persona che si è seduta davanti a me. Ogni giorno ricevo almeno dieci mail da perfetti sconosciuti che mi scrivono solo per dirmi “grazie”. È un loro bisogno, che ricevo come un mazzo di fiori profumati e freschi. Per il resto, considero questo lavoro un aspetto della mia professione di autore, cioè di creatore di realtà, descrittore di fenomeni, ricercatore di verità. Ritengo che fra qualche secolo vivremo in un mondo solidale e integrato, in cui ciascuno sarà al servizio dell’altro e non ci sarà più bisogno di terapisti, medicine, code in auto né uffici. Intanto sono qui, a continuare con voi questa ricerca. Ad accogliere in ognuno di voi il miracolo e la possibile verità che chiunque porta nella vita degli altri. Poiché ogni persona è una scintilla di coscienza divina. E ciascuno è una descrizione del mondo. 
(Gabriele Policardo)

 



Il demone dell'Amore e del Fato

Due persone si conoscono e si attraggono. Tra di loro nasce un improvviso maremoto che, come su due opposte scogliere, fa abbattere una bufera di sentimenti incontrollabili in un geometrico gioco di specchi. Sentono di conoscersi da sempre, di essersi ritrovati dopo una lunga ricerca e semplicemente riconosciuti. L’una completa le frasi iniziate dall’altra, bastano poche ore per scoprire che si sta bene e ci si sente completi anche nel più totale silenzio. Il mondo intorno sembra scomparire. O a tratti, animarsi, brillare come fosse fatto di scintille: vive, coscienti, pulsanti. L’amore e gli eventi precipitano. Si dicono «ti amo» e si ripetono «per sempre». Fanno progetti e già vivono tutto il tempo, passato, presente, futuro, nel respiro di un’intesa mai vissuta prima. D’un tratto, una delle due infrange questo idillio e fa saltare tutto. Senza ragioni, né spiegazioni, né tanto meno possibilità d’appello: si ritrae e distrugge tutto, senza alcun apparente motivo. L’altra piomba nel panico, si sente avvolta da un senso di morte, come inghiottita in un abisso. Ciò che la devasta di più è la mancanza di razionalità, l’impossibilità di attribuire un senso a questo nuovo nulla, la convinzione di aver vissuto qualcosa di reale con l’ipotesi di averlo solo sognato. L’altro? Mentiva? Recitava? È una persona folle? Niente di tutto questo. Si è solo attivato in lei, o in lui, il demone dell’amore e del fato che coglie improvvisamente quelle persone che — d'improvviso — grazie a un amore a lungo atteso, si toccano profondamente e si espandono al punto di sentirsi degli Déi. Da quel momento, se per un motivo che possiamo solo supporre, ritengono di non meritare quell'amore profondamente, diverranno delle autentiche bombe a orologeria. Sopraffatti dal terrore che il destino possa improvvisamente sottrargli ciò che li rende completi e felici, non avendo motivi per nutrire un timore reale (ciò che annichilisce la persona rifiutata è che tutto andava come in una fiaba, senza una nota stonata), distruggono loro stessi quanto hanno costruito. Per dimostrarsi di non meritare nulla, che nella vita andrà sempre e comunque male. Sono le persone che quando leggono o sentono parlare di destino, di anime gemelle, di amori assoluti, storcono il naso, sollevano la spalla, dicono tra sé «non può succedere, non può essere possibile, non può capitare a me». La vita invece li contraddice subito e loro, nello stordimento iniziale, ci credono e si lasciano andare, perché quel che vivono è ovviamente reale. Ed è proprio perché tutto ciò che attraversano è vero, profondo, assoluto, che al culmine, quando ormai ci sono completamente dentro, chiudono tutto. 
Come fa chi è stato rifiutato a confrontarsi con questa situazione? È giusto, una volta subìto il rifiuto, tentare di mediare, di ricucire, di far ragionare l’altro, di aiutarlo a superare il proprio demone? Dalla mia esperienza, l'unico modo di reagire a questi bambini spauriti è non essere accondiscendenti ma causare uno shock ancora più forte. Ingoiare il cuore, fermare il tremore del proprio dolore e mettere un punto con una frase lapidaria: «ah sì, va bene come dici tu, ciao buona vita». Poiché stare al gioco dell’altro è solo uno stillicidio lancinante. Loro si comportano come pazzi. Dal giorno alla notte chiudono tutto. Sapendo che gli altri, i "sani", saranno lì a sperare di ricostruire quella verità, di recuperare il sogno, di tornare a vivere a quel livello. Naturalmente, torneranno prima o poi a farsi vivi, a sondare il terreno, a cercare il perdono per poter poi costruire una nuova e più perfetta punizione autoinflitta. È uno strano, terribile, gioco perverso, in cui vince chi è (o si dimostra) più «pazzo». Chi interpreta meglio il ruolo della persona gelida, disumanizzata, impietrita. Naturalmente è una finta: noi sappiamo che quella persona ha tirato fuori di noi una divinità che risiede nel nostro cuore. Ed è proprio questo che l’ha terrorizzata, non ha saputo gestire quell’immensa energia che è l’amore, la felicità. Ma credere che sia qualcosa che, per noi, dipende da loro, significa nutrirli e fare il loro gioco. L'amore che sappiamo vivere e dare è un nostro patrimonio. Se l’altro si tira indietro, è un suo diritto. E un nostro tenerlo fuori finché non avrà risolto i suoi demoni. 
(Gabriele Policardo)


domenica 14 luglio 2013

10. L'Agente del Karma



Mio nonno aveva un gatto di nome Chicco. Era un gatto tutto bianco, enorme, nonostante ciò, mite e dolcissimo. Diceva che fosse il suo migliore amico, nonché un figlio. A volte lo “allattava” attraverso la canottiera. Tutti sapevamo in famiglia che tra loro c’era un legame indissolubile. Quando a vent’anni suonati Chicco morì, fu chiaro a ognuno che il nonno, avendo proiettato su di lui se stesso, lo avrebbe seguito a breve. A 94 anni, dopo aver ripetuto per molto tempo che era suo desiderio vedere il 2012, si ammalò improvvisamente. Mia madre mi descrisse i sintomi del suo “edema cerebrale” al telefono: potei fare una diagnosi basata sulle 5 Leggi Biologiche di Hamer, che ricalcava in pieno quella che successivamente fu firmata dal medico di famiglia. Raggiunsi subito il nonno in Sicilia. E benché tutti o quasi lo dessero per morto, iniziai a seguire gl’interventi del medico che, pur non applicando le 5 leggi, coincidevano con il programma essenziale di far sgonfiare gli edemi cerebrali, diversi e critici, dovuti al fatto che il nonno aveva “gettato la spugna”, risolvendo molti importanti conflitti contemporaneamente. In sostanza, essendo stato privato da alcuni parenti del suo ruolo di capofamiglia, esautorato, svalutato, contrastato e attaccato, si era arreso. Il che a livello organico aveva comportato un accumulo eccessivo, drammatico di acqua nel cervello. La situazione era critica. Se avesse risolto anche solo un nuovo conflitto, la pressione intracranica lo avrebbe ucciso. Passarono alcuni giorni. In effetti, la terapia portò a dei miglioramenti. Io stesso girai un video di lui che giocava con mia madre a tirarsi una palla di gomma. In barba ai parenti che già avevano bollato la questione come “tumore al cervello” ed emesso la sentenza di morte, di fronte a tale evento pensai: «e se adesso non muore più? Come se lo spiegheranno?». Accadde che l’indomani, mentre io mi trovavo a casa mia, venni a sapere che l’infermiere che andava tutti i giorni dal nonno aveva avuto la terribile idea di togliergli, di sua volontà, il catetere. E il catetere in quella condizione significava vita o morte. Cercai d’intervenire perché lo rimettesse subito: l’infermiere era impegnato in un altro lavoro e quando poté venire, solo a sera, il danno era fatto. Non potendo più espellere l’acqua, il nonno andò in coma e morì tre ore dopo. Fu evidente che, sebbene si andasse verso una soluzione organica, aveva bruciato tutto il suo karma e l’infermiere non era altro che questo: un emissario, un funzionario della legge che presiede la vita e la morte, l’Agente del Karma. Quando il Karma di una vita si è esaurito, niente può tenere una persona su questo piano di esistenza. Non gli volli male. Quando lo vidi in chiesa, con gli occhi azzurri e il suo sorriso dolce, provai un grande affetto per lui. Era venuto a salutare il nonno come fosse anche un po’ suo nonno. Gli dimostrava lo stesso amore incondizionato per cui, in questa vita, gli è capitato d’interpretare quel ruolo, così importante, così centrale. Colui che taglia il filo e rinchiude nel tempo e nello spazio quella vita, compiendola. La mano che scrive la parola «fine». L’infallibile, puntuale, amorevole Agente del Karma. 

Copyright Gabriele Policardo 2013



mercoledì 29 maggio 2013

9. «Ragione e sentimento». Ovvero «L’acido ascorbico che passione!»



Conosco bene la storia di una donna che desidera con tutto il cuore qualcosa, si scontra con i genitori e finisce che fa la ragioniera. È la storia di mia madre. Tutta la mia fanciullezza è trascorsa con l’immagine di mia madre, un genio di madre, perennemente alla scrivania, giorno e notte (aveva lo studio dentro casa, non ha smesso di lavorare per 30 anni). Non so come abbia fatto ad essere così brava: forse erano due e si davano il cambio in bagno, come Superman e Clark Kent. Dicevo, quando mia madre osò dichiarare che avrebbe desiderato iscriversi all’istituto d’arte, mia nonna, Ornella von Kappler, disse «no, tu devi fare lo scientifico». Mia madre, che è mancina, concluse «piuttosto che dartela vinta m’iscrivo a ragioneria». E così fece. Ora, chi ama i numeri e la psicologia, non avrà difficoltà a trovare fascino nel mestiere di commercialista, in un paese devastato dai ladri, amministrato da schizofrenici e soffocato da leggi che correggono, integrano, cancellano, ripristinano, riannnullano altre leggi. Ma a una persona amante dell’arte, della bellezza, della creazione, del senso estetico, è meglio spezzare le ali. E così mi disse, infatti. Quando le chiedevo da piccolo se avrei dovuto fare il commercialista come lei, mi guardava come la bambina dell’esorcista e rispondeva «piuttosto ti spezzo le gambe». Ogni tanto tirava fuori una pistola grigia e si sparava una dose di un farmaco contro il mal di testa che costava 100 mila lire. Questa era mia madre. Un capolavoro vivente con una pistola di plastica in mano contro il proprio corpo che si opponeva alla mortificazione della sua grande anima. Ma un giorno ha capito e ha mollato tutto, dandosi al giardinaggio, ai gatti e ai bavaglini. A proposito, se vi servono bavaglini da regalare ai vostri bambini o ad amici che hanno appena avuto dei figli, ditelo a me: la farete felice se le comprate un bavaglino ricamato a mano personalizzato.
Oggi ho avuto una incontro con una persona che mi ha ricordato tanto mamma. Perché anche lei ha scelto il mestiere di ragioniera per obbligo dei propri genitori. Per inciso: imporre una scuola che si detesta non è un atto di disamore o di sadismo dei genitori, è un modo un po’ deviato e grossolano di manifestare il proprio amore nella forma di una spasmodica ansia, di una preoccupazione preventiva che tra vent’anni non trovi lavoro. Hanno sbagliato tutti, perché alla fine oggi nessuno lavora più. Tanto valeva fare l’istituto d’arte o il classico.
Questa persona, per anagrafe portatrice di bellezza, si è alzata stamattina e si è accorta che non ne può più del lavoro che ha scelto di scegliere, del suo capo, del suo collega che la maltratta, e che la seduce assai di più la strana alchimia magnetica per cui tutti quelli che hanno un problema glielo vanno a dire. E lei trova per loro delle soluzioni.
Salta fuori subito che da sempre si è occupata di studi e ricerche terapeutiche, e ama molto lo studio delle piante e le proprietà delle erbe. Non ha però considerato di fare di questa sua passione, che è la propria missione, il lavoro della sua vita. Ha scelto la via assai più ripida e dispendiosa di fare un lavoro di facciata ed esprimere il proprio talento privatamente, come dovesse vergognarsene, e nel tempo libero.
«Scusa, che cosa hai studiato stanotte?» le ho chiesto. «L’acido ascorbico». Ribatto: «e ti pare normale che una ragioniera si emozioni con l’acido ascorbico?».
La vita apre delle finestre. Una evidentemente si è aperta oggi nella vita di questa grande donna. Se lei si affaccia e vede passare, per la strada soleggiata e d’oro, la ragazza di 23 anni che era quando chiuse tutti questi tesori in un buio forziere, scoprirà l’isola del tesoro. E anche il mondo ne sarà arricchito. Perché un’erborista terapista serve francamente più di un ragioniere in un’epoca di trasformazione, evoluzione e fallimenti dei grandi casermoni del consumismo.
Ma deve comunque essere grata ai suoi. Se in fondo l’avessero incoraggiata a fare la farmacista, oggi quasi certamente si mangerebbe le mani, perché costretta a dare a ogni persona un farmaco con la certezza perenne che sia inutile, superfluo o addirittura controproducente. E non c’è dannazione peggiore che essere costretti a esercitare la propria passione con l’obbligo di tradirla ogni giorno.

21.05.13 Copyright Gabriele Policardo

martedì 21 maggio 2013

8. Amici nel tempo



Nell’autunno 2009 mi trovavo tra le montagne a nord di New York, le Catskills, a fare il giardiniere con la mia ragazza nell’ashram del nostro Maestro. Era un vero paradiso, nonostante la pesantezza del lavoro che offrivamo come dono alla comunità (e a noi stessi). Raccogliere tonnellate di foglie, spalare camion e camion di terra, piantare bulbi, spazzare, rastrellare, plastificare le finestre, cingere alberi e cespugli, onorare Dio in noi e negli altri.
Dormivamo in stanzoni con sei letti, ma essendo l’ashram aperto solo ai sevaiti — cioè coloro che offrono il proprio servizio — raramente vi erano più di due persone per stanza. A me andò di lusso. Avevo la stanza tutta per me e non dovevo rendere conto a nessuno. Scrivevo il mio diario nell’anticamera fino a tardi e mi alzavo tutte le mattine alle 4.30 — l’ora in cui a casa mia di solito vado a dormire. Verso le 21.00 crollavo, come Dante alla fine di ogni cantica.
Ma quando vidi alla reception che alla mia stanza era stato assegnato un nome, Philip Chaffee, dentro di me iniziai a borbottare. Forse era finita la pacchia. Quel giorno era un sabato, e con la mia ragazza andammo fuori dall’ashram; a pochi passi c’era l’Arati Store, il negozio in cui si poteva trovare di tutto — cibi, creme, statue, incensi, riviste, libri, ecc. — e mi beai di tanta abbondanza. E comprai una trentina di libri. Al punto che al check in del volo di ritorno ho dovuto pagare 50 $ extra per il peso della valigia (l’impiegata italoamericana mi disse nella sua lingua meravigliosa «ohe, guaglio’, qui superi il peso di venti kilograms, devi pagare 50 $ extra» e io «posso pagare con la carta?» e lei «co’ la card, in cuntant, comu ti pare»).
Mentre il cassiere dell’Arati Store batteva i trenta libri, improvvisamente mi accorsi che dietro di me c’era un uomo sulla cinquantina che attendeva. Aveva gli occhiali scuri, era alto e robusto, i capelli corti, ricci e grigi, un’aria seria ma allo stesso tempo gioviale. Insomma, sembrava il classico killer dei film americani. Mi scusai con lui per farlo aspettare tanto. E in un americano da western mi rispose “È ok, è una così bella giornata”.
Prendemmo le nostre buste e ce ne tornammo all’ashram.
Mentre camminavo verso gli appartamenti, lungo i corridoi tra gli alberi, continuai a percepire la presenza di quell’uomo alle mie spalle. Proprio come nei film, ripeto. Poi giunsi alla mia stanza, e, voltandomi, eccolo dietro di me, sempre con gli occhiali, sempre in silenzio. «Ah…» dissi, a dir poco sorpreso. Era lui Philip Chaffee.
Nell’ultima mia settimana all’ashram — e già nello scrivere questa frase, non so perché, mi vengono le lacrime agli occhi — Philip avrebbe condiviso la mia stanza e anche il lavoro ai giardini. Iniziammo a chiacchierare. Lui era un “attorney”, cioè un avvocato. Ed era, come molti americani, un patito dello yoga, in tutte le sue forme. Uno che, diversamente dagli europei, prende queste cose con molta serietà, pur con tutte le contraddizioni che vi possono essere nel fare un certo tipo di vita, o nell’averla fatta, e nello scegliere di punto in bianco la strada della perfezione, e perseguirla con ostinato entusiasmo. Gli chiesi da dove venisse. Grand Rapids, Michigan. Io capii “Grand Rabbits” e gli chiesi «dove sono questi conigli giganti?». Inoltre gli chiesi se, essendo del Michigan, potevo chiamarlo «Mitch». Lui rispose, sorridendo, «I don’t care!». Diventammo amici per la pelle.
Diversamente da noi, che ci spaccavamo la schiena come soldati per compiere fino in fondo l’immensa quantità di lavoro che il nostro coordinatore ci ammollava ogni giorno, Philip la prendeva con filosofia. A volte spariva per mezz’ora, ed era andato a prendere un rastrello. Intanto s’era fatto una passeggiata tra gli alberi rossi che cingevano il lago, contemplandone la bellezza. Un giorno un trasportatore, facendo retromarcia con il camion, spezzò un ramo di un grande albero, proprio vicino all’appartamento del Guru. La nostra coordinatrice, mentre ciò avveniva, gli gridò: «What are you doing? Shit!». Ci guardammo tutti negli occhi. Aveva proprio detto «Merda!». Sui terreni dell’ashram. Da quel momento, sdoganammo anche le parolacce. E Philip, rispetto agli altri nostri “colleghi” — un ragazzetto brasiliano, una signora argentina che non capiva una parola e un compassato signore inglese — era proprio il compagno ideale.
Passavamo ogni notte, al buio, a raccontarci le nostre vite, cosa desideravamo, cosa pensavamo di mille argomenti, quali erano i nostri progetti e desideri, e come la spiritualità ci aveva reso persone migliori. Usò una parola riguardo i nostri dialoghi, quando mi scrisse il suo pensiero sul mio diario. Disse che ero «challenging», cioè pungente, impegnativo, che con il mio punto di vista e il mio mondo lo sfidavo continuamente. Lui fu molto amabile quando venne con noi, all’Arati Store, a comprare — con i soldi vinti da mia madre al lotto — una statua di bronzo dello Shiva danzante, che avevo tanto desiderato e che poi mi fu spedita dall’India.
Philip era sempre disponibile, sempre allegro, sempre gioviale, sempre lì a darti una mano, a chiederti come stavi, a prendersi il suo tempo e il tuo tempo, perché parlare era un arricchirsi continuo e confrontarsi un viaggio della conoscenza.
Ricordo la sua faccia rossa, quando d’improvviso gli passò davanti il nostro Guru, uscendo dal caffè dell’ashram (il nostro Guru si fa vedere molto di rado). E ricordo com’era emozionato, come un bambino, quella notte del 31 ottobre, Halloween, quando fummo chiamati nel palazzo principale dell’ashram e il Guru arrivò a farci una sorpresa, trascorrendo con noi quella serata. Di notte, raccontandoci l’immensa emozione che avevamo appena vissuto, e ancora increduli, ci accorgemmo che chiudendo gli occhi non vedevamo il solito nero. Ma un blu brillante, luminoso e fantastico, il blu della Coscienza. Vivemmo quel momento fondamentale della nostra vita. Io e lui.
Quando fu il momento di andarcene, Philip era tristissimo. Camminava a testa bassa, e rimase con noi fino all’ultimo. Mi chiamava «fratello» e volle portare tutte le mie valigie, fino alla macchina. Quando, piangendo come vitelli, io e la mia ragazza vedemmo allontanarsi dal finestrino il più bel momento della nostra vita, c’era anche lui a salutarci.
Continuammo a scriverci. Tramite Facebook, era come fossimo costantemente collegati. Perché non mi era mai capitato di trovarmi così bene con una persona, come se la conoscessi da secoli. E di parlare a un livello così sottile, profondo, necessario.
Nel 2011 andammo in vacanza a Chicago. E per una serie di strane coincidenze, Philip non poté assentarsi dal lavoro — aveva delle udienze — e venirci a trovare. Nella sua delusione per non esserci riuscito, risuonava una strana, eccessiva tristezza. Gli dissi che avremmo avuto molti anni per incontrarci. Sarebbe venuto lui da noi a Roma, un giorno, a visitare l’Italia, e noi saremmo andati nella città dei conigli giganti.
Il 16 maggio del 2012, nel giorno in cui era nato il Maestro del nostro Maestro, un giorno sacro e benedetto, lessi su Facebook una serie di saluti e di commiati rivolti a lui. Non potei e non volli credere che fosse vero, ma era così. Una sera Philip era stato ricoverato per un’embolia polmonare e poco dopo se n’era andato. Cancellando quel futuro che avevamo immaginato e che forse lui sapeva di non poter garantire. Philip era una delle poche cose certe del mio futuro. Era quel pensiero dolce e luminoso cui correvo nei momenti di disagio, quando vedevo intorno a me un mondo inconsapevole, sciocco e violento. «Era l’uomo più morbido che avessi mai abbracciato» disse la mia ragazza, in lacrime. Philip era tante cose. E niente e nessuno colmerà il vuoto che ha lasciato nella mia vita. Ma io so, nel profondo del cuore, che dove è lui ora sta sentendo queste mie parole e rivivendo tutto questo con me. Perché come ci siamo incontrati, dopo secoli, prima o poi ci rincontreremo. Nel grande gioco della Coscienza. Io e Philip, come fratelli. Compagni di tante avventure. Amici nel tempo.


21.05.13 Copyright Gabriele Policardo