Io e mio cugino
Antonio cercavamo di fare un esperimento di telecinesi. Eravamo seduti a terra.
E tentavamo di far cadere da sopra un armadio un pallone di gomma che rappresentava
il mondo. Lo stesso esercizio che a 5 anni faceva il piccolo Hitler. Il pallone
non si muoveva di un millimetro, e noi fummo frustrati.
Il desiderio di
andare oltre la materia e i suoi limiti non si esaurì però in
quell’esperimento. È l’ossessione della mia vita.
In quel periodo
avevo visto uno sketch di Stanlio e Ollio che si ubriacavano con il gas
anestetico del dentista e ne combinavano di tutti i colori; il gas, in forti dosi,
diventa esilarante. Mi sono detto “pensa a portare in classe una bombola di gas
esilarante, finalmente la rivoluzione!”.
Andai
nell’enciclopedia di nonna a cercare la composizione. Lessi “N2O”. Elementare,
mi dissi. Ossido di diazoto. Facile come levarsi un dente.
Alla domenica,
invece della consueta esplosione, organizzai una distillazione di gas
esilarante. Misi a bagno un metallo nell’acido nitrico. E si sprigionò un gas.
Però non faceva ridere. Era una nebbia rossa ruggine, mostruosa. Chiusi l’acido
in un barattolo, lo misi dentro casa e me ne andai tra gli alberi a meditare su
dove avessi sbagliato.
Mentre capivo di
aver prodotto l’NO2 e non l’N2O, vidi mio padre tutto agitato. Non capiva
perché dalle finestre e dalle porte di casa uscisse un fumo rosso sangue, denso
e pesante. Era successo che il tappo del barattolo — di metallo — si era
squagliato, ribollendo nell’acido. Papà dovette spingerlo fuori con un
rastrello, per poco non ci rimase secco.
Il mio percorso
di alchimista andava a gonfie vele. Avevo trasformato uno sketch visto in tv in
un quasi disastro colposo. Tutto per colpa di un “2” prima o dopo l’ossigeno.
Vabbé.
Il piano del gas
esilarante saltò. Ma tempo dopo portai in classe l’acido solfidrico. Un gas
incolore che puzza di uova marce. Lo chiusi in una bottiglietta di plastica. E
feci evacuare la scuola. Ero un piccolo Gandhi. Ottenni il più alto risultato
senza alcuna violenza.
Intanto le
domande innescate dalla Chiamata Ontologica alla Coscienza si facevano ogni
giorno più urgenti. Non avevo strumenti. Se non la vita materiale, la scuola,
il mio tempo con me stesso. Chiedere ai miei simili, peggio che andar di notte.
La parte difficile non era solo capirmi con gli altri. Parlare la stessa
lingua. Non era neppure trovare le risposte giuste. Era: capire cosa
domandarsi. Come affrontare il problema e capire quale fosse il problema.
Quello che oggi definisco con nonchalance “il sentimento medio della vita che
hanno gli uomini”, una definizione perfetta di Pasolini, era ciò che allora non
sapevo dire a parole. La necessità di andare oltre. Di trovare continuamente un
confine e superarlo. L’avidità d’imparare solo cose fondamentali, che danno la
felicità. Che rendono completi. Che trasformano il tempo in oro. Ma da dove
incominciare?
Il fumo rosso si
era dissolto e il sogno era finito. Papà si era rassegnato molto tempo prima.
Prima che gli chiedessi di costruirmi una ghigliottina per giocare. Prima che
facessi esplodere il forno di casa per essiccare la polvere da sparo. Prima che
il geometra, andandosene da casa nostra, dicesse la famosa frase “ma chi siete,
la famiglia Addams?”.
A chi potevo
chiedere? Ai preti, no. Quelli volevano sapere solo se ti toccavi.
Agli adulti,
peggio che andar di notte.
Agl’insegnanti
di scuola. Se andava bene, ti guardavano come fossi deficiente e aizzavano il
resto della classe contro di te. Il senso era “fa domande dalle risposte
sconosciute. Ammazzatelo di risate e umiliatelo. Non ne farà più”.
Un giorno si
parlava di maternità, di nascita ecc. Io dissi che per me era un miracolo che
da due esseri umani se ne crei un altro. E la penso ancora così. Tutti risero.
Un ragazzino disse “Policardo per te è un miracolo fare un figlio”. E anche
l’insegnante rise. Il loro scopo era umiliarmi, e ci riuscirono. Perché
punirono in me la ricerca del mistico e della bellezza. Il livello del “miracoloso”
che leggo dietro ogni evento. Quella filigrana divina che i miei occhi vedono
sovrimpressa alla realtà.
La scuola, del
resto, serve a comprimere, non ad espandere. A disimparare, deformare e avvelenare
piuttosto che insegnare, formare e nutrire.
Mentre il mondo
delle persone “normali” iniziava a perdere per me interesse, il lato sempre più
misterioso e nascosto delle cose sussurrava alle mie orecchie come le sirene a
Ulisse. Le bombe e le formule non bastavano più. Dovevo capire che ci facevo io
qui dentro. In questa materia chiamata corpo. In questo tempo. Con tutte queste
persone intorno. Dovevo capire fino a che punto aveva senso capire. E dove
iniziava e dove finiva l’Essere.
25.04.13
Copyright Gabriele Policardo
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