Nell’autunno
2009 mi trovavo tra le montagne a nord di New York, le Catskills, a fare il
giardiniere con la mia ragazza nell’ashram del nostro Maestro. Era un vero
paradiso, nonostante la pesantezza del lavoro che offrivamo come dono alla
comunità (e a noi stessi). Raccogliere tonnellate di foglie, spalare camion e
camion di terra, piantare bulbi, spazzare, rastrellare, plastificare le
finestre, cingere alberi e cespugli, onorare Dio in noi e negli altri.
Dormivamo in
stanzoni con sei letti, ma essendo l’ashram aperto solo ai sevaiti — cioè coloro che offrono il proprio servizio — raramente
vi erano più di due persone per stanza. A me andò di lusso. Avevo la stanza
tutta per me e non dovevo rendere conto a nessuno. Scrivevo il mio diario nell’anticamera
fino a tardi e mi alzavo tutte le mattine alle 4.30 — l’ora in cui a casa mia
di solito vado a dormire. Verso le 21.00 crollavo, come Dante alla fine di ogni
cantica.
Ma quando vidi
alla reception che alla mia stanza era stato assegnato un nome, Philip Chaffee,
dentro di me iniziai a borbottare. Forse era finita la pacchia. Quel giorno era
un sabato, e con la mia ragazza andammo fuori dall’ashram; a pochi passi c’era
l’Arati Store, il negozio in cui si poteva trovare di tutto — cibi, creme,
statue, incensi, riviste, libri, ecc. — e mi beai di tanta abbondanza. E comprai
una trentina di libri. Al punto che al check in del volo di ritorno ho dovuto
pagare 50 $ extra per il peso della valigia (l’impiegata italoamericana mi
disse nella sua lingua meravigliosa «ohe, guaglio’, qui superi il peso di venti
kilograms, devi pagare 50 $ extra» e io «posso pagare con la carta?» e lei «co’
la card, in cuntant, comu ti pare»).
Mentre il
cassiere dell’Arati Store batteva i trenta libri, improvvisamente mi accorsi che
dietro di me c’era un uomo sulla cinquantina che attendeva. Aveva gli occhiali
scuri, era alto e robusto, i capelli corti, ricci e grigi, un’aria seria ma
allo stesso tempo gioviale. Insomma, sembrava il classico killer dei film
americani. Mi scusai con lui per farlo aspettare tanto. E in un americano da
western mi rispose “È ok, è una così bella giornata”.
Prendemmo le
nostre buste e ce ne tornammo all’ashram.
Mentre camminavo
verso gli appartamenti, lungo i corridoi tra gli alberi, continuai a percepire
la presenza di quell’uomo alle mie spalle. Proprio come nei film, ripeto. Poi giunsi
alla mia stanza, e, voltandomi, eccolo dietro di me, sempre con gli occhiali,
sempre in silenzio. «Ah…» dissi, a dir poco sorpreso. Era lui Philip Chaffee.
Nell’ultima mia
settimana all’ashram — e già nello scrivere questa frase, non so perché, mi
vengono le lacrime agli occhi — Philip avrebbe condiviso la mia stanza e anche
il lavoro ai giardini. Iniziammo a chiacchierare. Lui era un “attorney”, cioè
un avvocato. Ed era, come molti americani, un patito dello yoga, in tutte le
sue forme. Uno che, diversamente dagli europei, prende queste cose con molta
serietà, pur con tutte le contraddizioni che vi possono essere nel fare un
certo tipo di vita, o nell’averla fatta, e nello scegliere di punto in bianco
la strada della perfezione, e perseguirla con ostinato entusiasmo. Gli chiesi
da dove venisse. Grand Rapids, Michigan. Io capii “Grand Rabbits” e gli chiesi «dove
sono questi conigli giganti?». Inoltre gli chiesi se, essendo del Michigan,
potevo chiamarlo «Mitch». Lui rispose, sorridendo, «I don’t care!». Diventammo amici
per la pelle.
Diversamente da
noi, che ci spaccavamo la schiena come soldati per compiere fino in fondo l’immensa
quantità di lavoro che il nostro coordinatore ci ammollava ogni giorno, Philip
la prendeva con filosofia. A volte spariva per mezz’ora, ed era andato a
prendere un rastrello. Intanto s’era fatto una passeggiata tra gli alberi rossi
che cingevano il lago, contemplandone la bellezza. Un giorno un trasportatore,
facendo retromarcia con il camion, spezzò un ramo di un grande albero, proprio
vicino all’appartamento del Guru. La nostra coordinatrice, mentre ciò avveniva,
gli gridò: «What are you doing? Shit!». Ci guardammo tutti negli occhi. Aveva proprio
detto «Merda!». Sui terreni dell’ashram. Da quel momento, sdoganammo anche le
parolacce. E Philip, rispetto agli altri nostri “colleghi” — un ragazzetto
brasiliano, una signora argentina che non capiva una parola e un compassato
signore inglese — era proprio il compagno ideale.
Passavamo ogni
notte, al buio, a raccontarci le nostre vite, cosa desideravamo, cosa pensavamo
di mille argomenti, quali erano i nostri progetti e desideri, e come la
spiritualità ci aveva reso persone migliori. Usò una parola riguardo i nostri
dialoghi, quando mi scrisse il suo pensiero sul mio diario. Disse che ero «challenging»,
cioè pungente, impegnativo, che con il mio punto di vista e il mio mondo lo
sfidavo continuamente. Lui fu molto amabile quando venne con noi, all’Arati
Store, a comprare — con i soldi vinti da mia madre al lotto — una statua di
bronzo dello Shiva danzante, che avevo tanto desiderato e che poi mi fu spedita
dall’India.
Philip era
sempre disponibile, sempre allegro, sempre gioviale, sempre lì a darti una
mano, a chiederti come stavi, a prendersi il suo tempo e il tuo tempo, perché
parlare era un arricchirsi continuo e confrontarsi un viaggio della conoscenza.
Ricordo la sua
faccia rossa, quando d’improvviso gli passò davanti il nostro Guru, uscendo dal
caffè dell’ashram (il nostro Guru si fa vedere molto di rado). E ricordo com’era
emozionato, come un bambino, quella notte del 31 ottobre, Halloween, quando
fummo chiamati nel palazzo principale dell’ashram e il Guru arrivò a farci una
sorpresa, trascorrendo con noi quella serata. Di notte, raccontandoci l’immensa
emozione che avevamo appena vissuto, e ancora increduli, ci accorgemmo che
chiudendo gli occhi non vedevamo il solito nero. Ma un blu brillante, luminoso
e fantastico, il blu della Coscienza. Vivemmo quel momento fondamentale della
nostra vita. Io e lui.
Quando fu il
momento di andarcene, Philip era tristissimo. Camminava a testa bassa, e rimase
con noi fino all’ultimo. Mi chiamava «fratello» e volle portare tutte le mie
valigie, fino alla macchina. Quando, piangendo come vitelli, io e la mia
ragazza vedemmo allontanarsi dal finestrino il più bel momento della nostra
vita, c’era anche lui a salutarci.
Continuammo a
scriverci. Tramite Facebook, era come fossimo costantemente collegati. Perché non
mi era mai capitato di trovarmi così bene con una persona, come se la
conoscessi da secoli. E di parlare a un livello così sottile, profondo,
necessario.
Nel 2011 andammo
in vacanza a Chicago. E per una serie di strane coincidenze, Philip non poté
assentarsi dal lavoro — aveva delle udienze — e venirci a trovare. Nella sua
delusione per non esserci riuscito, risuonava una strana, eccessiva tristezza. Gli
dissi che avremmo avuto molti anni per incontrarci. Sarebbe venuto lui da noi a
Roma, un giorno, a visitare l’Italia, e noi saremmo andati nella città dei
conigli giganti.
Il 16 maggio del
2012, nel giorno in cui era nato il Maestro del nostro Maestro, un giorno sacro
e benedetto, lessi su Facebook una serie di saluti e di commiati rivolti a lui.
Non potei e non volli credere che fosse vero, ma era così. Una sera Philip era
stato ricoverato per un’embolia polmonare e poco dopo se n’era andato. Cancellando
quel futuro che avevamo immaginato e che forse lui sapeva di non poter
garantire. Philip era una delle poche cose certe del mio futuro. Era quel
pensiero dolce e luminoso cui correvo nei momenti di disagio, quando vedevo
intorno a me un mondo inconsapevole, sciocco e violento. «Era l’uomo più
morbido che avessi mai abbracciato» disse la mia ragazza, in lacrime. Philip era
tante cose. E niente e nessuno colmerà il vuoto che ha lasciato nella mia vita.
Ma io so, nel profondo del cuore, che dove è lui ora sta sentendo queste mie
parole e rivivendo tutto questo con me. Perché come ci siamo incontrati, dopo
secoli, prima o poi ci rincontreremo. Nel grande gioco della Coscienza. Io e
Philip, come fratelli. Compagni di tante avventure. Amici nel tempo.
21.05.13
Copyright Gabriele Policardo
Mi mancherà... sempre... così come sarà sempre nel mio Cuore e nei miei ricordi più dolci.
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