Ieri sera mi
sono imbucato a un evento mondano. C’era tutta la Roma del cinema e io — da
attento osservatore — ho immortalato con gli occhi di un documentarista di
Super Quark la strana vita dei ricchi. Arrivano a gruppetti, per lo più in
coppie. E pur nella sera romana, alla tenue luce dei lampioni e tra le ombre
degli alberi, si scannerizzano tra di loro a chilometri come fanno i gatti
quando altri gatti invadono il loro isolato. E come i gatti si annusano, si
strusciano o s’ignorano. Si entrava in questo grande locale da uno spiazzo,
dopo aver fatto la tessera — 7 euri. Si tagliava un muro di persone
chiacchieranti del nulla e fumanti, per infilarsi in muro più denso di corpi,
alla Indiana Jones, e guadagnare l’entrata del locale. Dentro si starà più
comodi, pensa un artista squattrinato, un uomo del popolo, che paga la libertà
della propria parola con la non-appartenenza a questo gattile. No, peggio. Una
massa informe di esseri umani, che sguazzano nelle onde di una musica
terribile, speronando i tavoli tutti rigorosamente vuoti ma occupati da borse e
maglioni. A un altro livello, sembrava la festa di compleanno di una borsa.
Subito
m’irrigidisco. La mia amica, una PR geniale che cambia a ogni passo
professione, come le targhe della Aston Martin di James Bond, mi fa strada
nella mischia. Si ferma il primo, un attore. “Ah, io sono nelle produzioni!” e
si scambiano due parole. Altro passo. Una signora tutta imbalsamata in cerca di
strategie contro le insidie dell’età. E la mia amica “ah sì, venga da noi, sono
nel settore del benessere, abbiamo delle bellissime palestre!” e la signora
gongola tutta, quasi a dar segni di vita. Poi trovo persino un mio amico, Phil,
di professione producer, in cerca di una nuova casa. “Ottimo! Io sono nel
settore immobiliare!” fa la mia amica. E il bello è che davvero fa tutte queste
cose contemporaneamente. Proprio come Goldfinger.
Intanto io li
osservo, questi ricchi. Si accalcano a un bancone così preso d’assalto, che non
sono riuscito a capire chi è che serviva. Se esseri umani, o il polpo gigante
del locale di Roger Rabbit. Si spremono, come formiche firmate, gli uni sugli
altri, uomini, donne, vecchi e bambini. Non vale la regola dell’abbandonate la
nave. Prima vengono tutti.
Poi li vedi
uscire da questa calca con due piattini di plastica che contengono l’ambito
premio, il cibo praticamente unico che si serve in queste occasioni. Couscous e
mezzi toast con pomodori sopra. Roba che farebbe svenire il mio medico
ayurvedico. E un bicchiere di vino con cui giocano a fare gli egizi, camminando
come equilibristi tra quelli che devono ancora magna’ (e sono agguerritissimi)
e quelli che escono dalla fila con il piattello servito. Non siedono ai tavoli,
perché le borse li guardano male. Allora stanno in piedi, tutti in punizione,
bombardati dalla musica micidiale, a passarsi il bicchiere nella mano con cui
non mangiano e poi nell’altra quando devono bere. Se gli offri di stringerti la
mano sono fottuti. E ti guardano malissimo. Peggio delle borse. Nella caciara
universale, strillano per dialogare eppure sono convinto che il 70% delle cose
che si dicono non le capiscono. Perciò restano tutti amici.
A un certo
punto, la musica finisce. Cala il panico. Il silenzio uccide otto persone.
Qualcuno fa un sospiro di sollievo. Per fortuna il baccano ricomincia dopo
cinque secondi e ancora più forte, con un’onda d’urto che fa saltare i punti
dalla faccia della signora di prima, e qualcuno viene colpito e ferito.
Intanto penso a
che vita fanno questi ricchi. Una vita scomodissima, dove si mangia poco e
male, in piedi, strillando, tra persone che ti danno botte continue — non sono
rari i pezzi di pomodoro che galleggiano nei bicchieri di vino. Io, con dodici
euro, al Wah Pei di Campo Ascolano magno come un re, antipasto, primo,
contorno, fragole con panna e gelato, caffè e pure la grappa, servito e
riverito. Che bella la povertà!
«Non sono mica
questi i ricchi» mi fa, appena fuori, il mio amico Phil. E io chiedo «chi
sono?». «Sono attori, attrici, gente del cinema, ma non sono loro i ricchi». Nel
silenzio improvviso della città che aspetta fuori dal locale i reduci della
festa, mi ricordo il Grande Gatsby. Le sue feste enormi e oscene, eppure
bellissime ed elegantissime in confronto a questa Sodoma e Gomorra. Tutti
ballavano allegri, la musica più bella nella storia dell’umanità, mentre l’America
andava a schiantarsi contro la Grande Depressione. Erano gli anni Venti, e lui
era solo un uomo innamorato che voleva riconquistare il suo amore di ragazzo.
«Cameriere, mi porti altro champagne» dico io, voltandomi. Ma non c’è
quell’America dietro di me. Ci sono i due che all’ingresso fanno le tessere. E
ti guardano con gli occhi innocenti e inconsapevoli di chi non capisce se tu
sia un premio Pulitzer, un miliardario filantropo o un ex banda della Magliana.
Ecco, la musica continua, gli amici non se ne vanno. Il sogno è finito. O
forse, non è nemmeno mai iniziato.
09.05.13
Copyright Gabriele Policardo
Nella foto, io e Phil all'uscita dal locale.
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