Esiste un luogo segreto in cui ogni bambino si
rifugia, protetto dalla sua immaginazione, tutte le volte che la vita
gli infligge un dolore che non riesce a sopportare. Quel rifugio
tappezzato di fantasia è la via di
salvezza da un mondo in cui gli adulti si scoprono piccoli, traditori,
bugiardi, meschini, inadatti alla vita, deboli e violenti. A volte
quegli adulti sono i genitori, e quel rifugio è l’altra via che
s’incontra al bivio con la morte. Quando un bambino cresce e fa di quel
rifugio un tempio, ha vergogna e rispetto di quello spazio sacro nel suo
cuore e non vi lascia entrare nessuno. Se lo fa, è perché il suo animo è
ancora puro e generoso, come quello del sé bambino. Allora quello
spazio protetto dall’immaginazione diventa qualcosa d’immensamente più
grande e importante: inizia a salvare la vita di altri bambini, e questi
bambini un giorno diverranno adulti o — se lo sono già — possono
tornare per qualche istante indietro e abbracciare finalmente i bambini
che sono stati. Chi per lavoro produce immaginazione, crea cioè quello
spazio segreto perché possa salvare altre vite innocenti, in tempi come
questo non ha vita facile. Sente — o dovrebbe sentire — sulle proprie
spalle una pesantissima responsabilità: creare storie capaci di
sublimare l’orrore che c’inghiotte ogni giorno, sforzarsi di essere
utile, costruire un rifugio nascosto e protetto in cui respirare un’aria
pulita, sognare una vita felice, vedere immagini meravigliose e
ascoltare la musica di magnifiche orchestre. Non è una fuga, come non lo
era da bambini: è un atto di ribellione, è la scelta della vita. Ho
pianto ieri sera guardando al cinema “Saving Mr Banks”, il film che
narra la sofferta genesi del capolavoro senza tempo “Mary Poppins”, un
film che ha introdotto alcuni momenti familiari felici nella vita di
milioni di bambini irrimediabilmente feriti. Ho riflettuto su come molti
grandi film, come tanti celebri destini, nascano sulle rovine di una
vita dilaniata dal dolore e trasformino in capolavori di parole, colori e
suoni il tentativo disperato di dare un finale diverso alla propria
vita, fare la pace con un genitore o semplicemente riabilitarlo nella
propria memoria. Forse è per questo che in momenti come quello che
viviamo avremmo bisogno proprio di quegli autori che posso dare quasi
con certezza come una specie estinta. Creatori di un mondo alternativo,
che ci strappino per un paio d’ore alla veglia funebre che il potere sta
celebrando per noi e per le nostre generazioni a venire, con la
complicità del «cinema», della «televisione», della «cultura.» Abbiamo
bisogno di qualcuno che ci porti per mano nel regno della sua fantasia e
riscriva ogni giorno, per noi, una realtà che è ormai insostenibile ai
più. Un piccolo indiano che c’inviti nella sua tenda fatta con un
lenzuolo e tre rami, mentre fuori gli adulti urlano, s’insultano e si
fanno la guerra come solo sanno fare. «Questo facciamo noi narratori —
dice un intenso Tom Hanks nei panni di Walt Disney — ristabiliamo
l’ordine con l’immaginazione.» A questo serve la fantasia: a curare le
ferite aperte dalla realtà. A compensare i traumi che segnano il nostro
destino. A far tacere le voci dei fantasmi che da soli non riusciamo a
scacciare. A renderci, per un attimo ineffabile e salvifico, il bambino
felice che ogni essere umano ha diritto di essere almeno una volta nella
vita.
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