Mio nonno aveva un gatto di nome Chicco. Era un
gatto tutto bianco, enorme, nonostante ciò, mite e dolcissimo. Diceva che fosse
il suo migliore amico, nonché un figlio. A volte lo “allattava” attraverso la
canottiera. Tutti sapevamo in famiglia che tra loro c’era un legame
indissolubile. Quando a vent’anni suonati Chicco morì, fu chiaro a ognuno che
il nonno, avendo proiettato su di lui se stesso, lo avrebbe seguito a breve. A
94 anni, dopo aver ripetuto per molto tempo che era suo desiderio vedere il 2012,
si ammalò improvvisamente. Mia madre mi descrisse i sintomi del suo “edema
cerebrale” al telefono: potei fare una diagnosi basata sulle 5 Leggi Biologiche
di Hamer, che ricalcava in pieno quella che successivamente fu firmata dal
medico di famiglia. Raggiunsi subito il nonno in Sicilia. E benché tutti o
quasi lo dessero per morto, iniziai a seguire gl’interventi del medico che, pur
non applicando le 5 leggi, coincidevano con il programma essenziale di far
sgonfiare gli edemi cerebrali, diversi e critici, dovuti al fatto che il nonno
aveva “gettato la spugna”, risolvendo molti importanti conflitti
contemporaneamente. In sostanza, essendo stato privato da alcuni parenti del
suo ruolo di capofamiglia, esautorato, svalutato, contrastato e attaccato, si
era arreso. Il che a livello organico aveva comportato un accumulo eccessivo,
drammatico di acqua nel cervello. La situazione era critica. Se avesse risolto
anche solo un nuovo conflitto, la pressione intracranica lo avrebbe ucciso.
Passarono alcuni giorni. In effetti, la terapia portò a dei miglioramenti. Io
stesso girai un video di lui che giocava con mia madre a tirarsi una palla di
gomma. In barba ai parenti che già avevano bollato la questione come “tumore al
cervello” ed emesso la sentenza di morte, di fronte a tale evento pensai: «e se
adesso non muore più? Come se lo spiegheranno?». Accadde che l’indomani, mentre
io mi trovavo a casa mia, venni a sapere che l’infermiere che andava tutti i
giorni dal nonno aveva avuto la terribile idea di togliergli, di sua volontà,
il catetere. E il catetere in quella condizione significava vita o morte. Cercai
d’intervenire perché lo rimettesse subito: l’infermiere era impegnato in un
altro lavoro e quando poté venire, solo a sera, il danno era fatto. Non potendo
più espellere l’acqua, il nonno andò in coma e morì tre ore dopo. Fu evidente
che, sebbene si andasse verso una soluzione organica, aveva bruciato tutto il
suo karma e l’infermiere non era altro che questo: un emissario, un funzionario
della legge che presiede la vita e la morte, l’Agente del Karma. Quando il
Karma di una vita si è esaurito, niente può tenere una persona su questo piano
di esistenza. Non gli volli male. Quando lo vidi in chiesa, con gli occhi
azzurri e il suo sorriso dolce, provai un grande affetto per lui. Era venuto a
salutare il nonno come fosse anche un po’ suo nonno. Gli dimostrava lo stesso
amore incondizionato per cui, in questa vita, gli è capitato d’interpretare
quel ruolo, così importante, così centrale. Colui che taglia il filo e
rinchiude nel tempo e nello spazio quella vita, compiendola. La mano che scrive
la parola «fine». L’infallibile, puntuale, amorevole Agente del Karma.
Copyright Gabriele Policardo 2013
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